PERCHE’ L’ AFGHANISTAN ?

GLI INTERESSI ECONOMICI E STRATEGICI DEGLI U.S.A.

 

1) LA CHIAVE DELL' ASIA

L’ Afghanistan è un paese estremamente povero, agricolo, con tratti di economia feudale. La maggioranza  della popolazione afgana soffre per la malnutrizione, per insufficienza di case, la mancanza di indumenti, di elettricità, acqua potabile, per l’ assenza di servizi sanitari ed  educativi.

Il PIL dell’ Afghanistan  è crollato negli ultimi venti anno a causa della situazione di conflitto permanente, iniziata con l’ aggressione “difensiva” dell' URSS revisionista, proseguita con la guerra civile, fino  ai bombardamenti odierni compiuti dall’ imperialismo USA e inglese.  Durante tutti questi anni un terzo della popolazione è emigrata, specialmente in Pakistan ed in Iran.

Una delle maggiori risorse economiche del paese è la produzione di papavero da oppio (primo produttore mondiale) e di hashish.  La coltivazione  dell' oppio, che serve come base per la produzione di eroina, è stato usata dall' imperialismo per finanziare la guerra contro l' URSS. Sotto gli occhi della CIA e dell'ISI pakistano diverse zone dell' Afghanistan si sono convertite in zone di produzione e di raffinazione della droga. Nell' anno 2000 l' Afghanistan ancora produceva circa il 70% dell' oppio mondiale. Mentre i Talebani nell' anno in corso hanno proibito la coltivazione, riducendola ad un 60%, da parte sua l' Alleanza del Nord, alleata di Bush e Blair,  l' ha invece incrementata.

Per quanto riguarda le risorse energetiche e minerarie si stimano significative riserve di gas naturale, petrolio e carbone. Durante l’ occupazione dell’ Afghanistan, Mosca stimò le riserve di gas naturale del paese in circa cinque  trilioni di piedi cubici. La produzione di gas, che era  di 275 milioni di piedi cubici al giorno,  è andata declinando dagli anni ’80 a causa dei sabotaggi e della guerra.

Ma questi fattori economici sono poca cosa se paragonati all’ interesse che gravita sull’ Afghanistan quale via di transito degli idrocarburi prodotti in altri paesi.

Nella scheda dell' Energy Information Agency degli USA riservata al paese centroasiatico troviamo scritto: "L’ importanza dell’ Afghanistan dal punto di vista energetico deriva dalla sua posizione geografica, in quanto rotta di transito potenziale per l’ esportazione di greggio e gas naturale dall' Asia centrale al  mare Arabico". Non a caso dunque l' Afghanistan viene chiamato "la chiave dell' Asia". Una chiave che permette di aprire un forziere colmo di risorse naturali e forza lavoro da sfruttare a basso costo.

Il tesoro energetico che giace nella regione caspica è di una portata enorme.  Per quanto riguarda le riserve sicure di petrolio, solo in Kazakistan ed Azerbaijan sono stimate dalla Energy Information Agency statunitense in 30 miliardi di barili, equivalenti alla somma del petrolio USA più quello del Mare del Nord. Le riserve “possibili” di petrolio dell’ intera regione caspica (meno la Russia e l’ Iran) sono circa di 200 miliardi di barili.

Per quanto riguarda le riserve sicure di gas (una delle fonti di energia più pulite) del Turkmenistan, dell’ Uzbekistan e del Kazakistan sono sull’ ordine del 230 trilioni di piedi cubici. Le riserve possibili di gas naturali sono di almeno 280 trilioni di piedi  cubici, di cui circa 160 trilioni stimati nel solo Turkmenistan, paese che confina a sud con l’ Afghanistan. Occorre notare che le riserve totali di gas del solo  Turkmenistan sono poco meno della metà di quelle dell’ intera regione del Caspio (Iran e Russia comprese). Pur considerando che gli USA, per ovvi motivi,  sovrastimano queste risorse, si tratta di un colossale bottino per gli imperialisti, di gran lunga più consistente di quello che giace nelle altre parti del mondo. Non solo la loro dimensione ed accessibilità, ma la stessa esistenza di queste riserve energetiche è fondamentale per comprendere la politica dei vandali del capitale monopolistico finanziario e dei loro alleati regionali, sempre più interessati ad impadronirsene.

Al giorno d’oggi il consumo giornaliero di petrolio nel mondo  è di circa 70 milioni di barili al giorno. Secondo quanto previsto dagli analisti dell’ oligarchia finanziaria il consumo mondiale di energia nel  2015 dovrebbe raggiungere i 100 milioni di barili al giorno. Attualmente gli USA assorbono quasi un quarto del consumo mondiale. Secondo le statistiche della Casa Bianca nei prossimi venti anni la crescita  del consumo di petrolio  negli USA aumenterà del 33% e  quella di gas naturale del 45%. Ciò costringerà gli USA, che già devono fronteggiare una acuta crisi energetica, ad importare i due terzi del fabbisogno energetico, accrescendo il loro enorme debito estero.

Bisogna aggiungere che la maggiore domanda di energia proverrà dai paesi asiatici, specialmente la Cina capitalista e l' India,  per via della crescita demografica  e della  dinamica economica dei paesi di quel continente. Ciò significa che gli USA verranno gradualmente  sloggiati dalla posizione di principale paese consumatore. Si calcola che nel 2015 solo la metà del petrolio prodotto  nel Golfo Persico arriverà ai mercati occidentali.

L' accesso alle risorse energetiche, la possibilità di appropriarsi della ricchezza  che scorre tra l’ Afghanistan e la Cecenia è fondamentale per lo sviluppo economico dei prossimi anni ed in particolare per le ambizioni e gli interessi strategici dell’ imperialismo a stelle e strisce. Tanto più se pensiamo che gli USA hanno perso l’ influenza su Iran e Iraq, e che le relazioni con l’ Arabia Saudita sono traballanti.

Dal “grande gioco” che si svolge attorno al petrolio ed al gas del Caspio, cioè le fonti energetiche del futuro che si trovano in una delle zone più instabili del mondo, dipenderanno  i rapporti di forza tra paesi imperialisti nei prossimi decenni.

E' qui che si decide se gli USA manterranno una effettiva supremazia mondiale impedendo l' ascesa di un altro paese imperialista, o l' alleanza di più paesi imperialisti, in grado di scalzarli dalla loro posizione predominante. Dunque la lotta per le fonti di energia, la concorrenza fra potenze capitaliste che cercano di strapparsi il "boccone", i conflitti per gli interessi delle multinazionali petrolifere sono divenuti una delle cause principali delle guerre.

 

2) LA STRATEGIA DELL' IMPERIALISMO U.S.A.

Tutti i piani elaborati dagli strateghi dell’ imperialismo USA come Alexander Haig, Zbignew Brzezinski o James Baker (che dalla fine della "guerra fredda" sono entrati a pieno titolo nei libri paga delle multinazionali petrolifere), così come le direttive fornite dal National Energy Policy Development Group (l’ ente che stabilisce la politica energetica)  considerano il problema energetico come una priorità nelle scelte di politica estera, essendo una questione di “sicurezza nazionale”. Gli obiettivi definiti sono volti a:

1) diversificare le fonti di approvvigionamento USA per non dipendere unicamente dalla produzione interna e da quella del Medio Oriente; 2) controllare la volatilità dei prezzi che dovranno continuare ad essere espressi in dollari; 3) mantenere la dipendenza dei paesi produttori “sostenendone lo sviluppo” e staccandoli da altri centri di gravità, portando cioè al potere cricche filo-americane e creando protettorati; 4) marginalizzare la Russia ed impedire l' accesso diretto alle risorse della Cina, riducendo le loro aree di influenza nelle regioni strategiche e controllando le vie di transito degli oleodotti; 5) sostenere a spada tratta i monopoli finanziari  USA che investono in Asia Centrale e negli altri paesi produttori.

Nei confronti della Russia borghese questo piano   passa attraverso la  rottura del suo monopolio del trasporto delle risorse energetiche ed attraverso una accorta politica di alleanze nell' aree circostanti per impedire che gli eredi del socialimperialismo riconquistino le posizioni perse ed esercitino una egemonia sui nuovi “stati indipendenti”. Naturalmente la liquidazione “dell’ arbitrario controllo russo delle pipeline esistenti” viene compiuta in nome della “libertà e del pluralismo” nel trasporto delle risorse energetiche.

In pratica si sta verificando un grande accerchiamento politico e militare della Russia, accompagnato dall’ espansione della NATO all’ Est,  dalla creazione di una serie di stati vassalli  sul fianco sud (Georgia, Azerbaijan, Turkmenistan, Kazakistan).

Per quello che riguarda la Cina, che viene vista come un nemico economico degli USA nel medio periodo, la strategia è quella di evitare un intesa con i paesi arabi e impedire l’ accesso diretto alle fonti energetiche.    

In questa strategia, che costituisce la fase successiva della “guerra fredda” e  la cui  posta in gioco è il dominio nel continente eurasiatico e quindi sul mondo, tutte le  caselle chiave di questo scacchiere - in cui fluiscono le risorse strategiche e passano le vie di comunicazione -  devono essere controllata dalla superpotenza americana per evitare che si crei l’ egemonia di altre potenze in questa area.

In questo quadro il controllo delle materie prime energetiche a base di idrocarburi è lo strumento fondamentale) del mercato del petrolio per mantenere la supremazia politico-economica a livello mondiale  e per conseguire le gigantesche rendite legate alla gestione (in dollari) del mercato energetico.  E’ indubbio che la perdita anche parziale del controllo delle risorse energetiche o la nascita di un mercato degli idrocarburi che non faccia perno sul dollaro avrebbe effetti disastrosi sull’ imperialismo USA. Per questo motivo gli yankee hanno sempre dichiarato di essere pronti  a scatenare guerre imperialiste preventive o di reazione pur di continuare con ogni mezzo la politica di oppressione e di saccheggio che li rende  i principali nemici dei popoli.

Per questa stessa ragione l’ imperialismo USA ha la necessità di mantenere sotto controllo la situazione nei vari paesi tramite governi “affini”, evitando che si spostino sotto l’ egemonia  dei propri rivali.

Il sostegno USA ai Talebani ed a Bin Laden, fornito attraverso il Pakistan,  per tutti gli anni ’80 e ’90 va chiaramente interpretato in questo senso, in quanto parte dello sforzo per ridurre l’ influenza sovietica ed iraniana in questa area (che è assai vicina allo strategico stretto di Hormuz dove passa buona parte del petrolio per il “mondo libero”). Dal punto di vista statunitense l’ alternativa afgana era dunque sicuramente preferibile alle altre. Anche il Pakistan avrebbe beneficiato della soluzione, cementando il blocco anti-iraniano. E’ per questi prosaici motivi che, tramite i servizi pachistani, gli USA fecero scendere in campo nientemeno che Allah, attraverso il suo luogotenente in terra, il mullah Omar.

 

3) UNA ROTTA SICURA PER GLI INTERESSI STATUNITENSI

Per il momento le estrazioni di gas e petrolio delle repubbliche  centroasiatiche sono relativamente modeste. La distanza dai mercati potenziali, soprattutto quelli delle economie in crescita ed a più alto tasso di sviluppo dei paesi asiatici, la mancanza di oleodotti e gasdotti  per l’ esportazione, l' instabilità politica della regione, hanno posto finora lo sfruttamento delle riserve energetiche in una prospettiva non immediata.

Dal punto di vista dello sfruttamento delle risorse energetiche il problema chiave è far uscire queste risorse, dal momento che i paesi interessati non hanno accesso al mare aperto. Oggi gli oleodotto esistenti vanno quasi tutti verso nord, verso il porto russo di Novorossijsk sul Mar Nero.  La scelta di far passare il gas ed il petrolio verso la  Russia, per arrivare a rifornire i mercati europei, cinesi, giapponesi  e dell’ oceano indiano,  è decisamente avversata dall’ imperialismo USA.

Anche il transito delle risorse energetiche attraverso l’Iran, che è sotto embargo statunitense e rappresenta una minaccia per il cane da guardia Israele, comporta altrettanti problemi. Altre rotte, che allungano il percorso o fanno passare gli idrocarburi sotto il Mar Caspio, renderebbero gli investimenti fatti in Asia Centrale meno competitivi rispetto al gas estraibile in altre aree.

In altre parole il dilemma statunitense è quello di riuscire a trovare il modo per sfruttare il Kuwait del futuro, un Kuwait che però manca di accesso alle rotte marine e confina – disgraziatamente per gli USA – con lo stato “canaglia” iraniano e con il rivale russo. 

Nei disegni USA i due bracci principali dell’ oceano nero che giace fra il Caspio ed il Caucaso dovrebbero seguire delle rotte preferenziali: il braccio occidentale partendo da Baku (in Azerbaijan),  attraversa Tiblisi (Georgia) e da li giunge fino al porto turco di Ceyhan sul  Mediterraneo.

Per quanto riguarda il braccio orientale gli specialisti americani hanno progettato diversi oleodotti e gasdotti, tra cui i più importanti  sono  quelli che devono essere costruiti in Afghanistan, del valore di miliardi di dollari. Seguiamo più da vicino le vicende di queste pipeline.

Nell’ ultimo decennio   l’ amministrazione USA  ed i manager delle compagnie petrolifere hanno ritenuto che la rotta dell’ Afghanistan, paese che confina con tutte le casseforti gas-petrolifere del Caspio, nonostante i suoi svantaggi dovuti alla  situazione politica del paese, era assolutamente preferibile (sia per i motivi strategici accennati, sia per  la più corta distanza da coprire  e per i minori costi)  rispetto alla rotta che unisce Russia e Cina ed a  quella che passa per l’ Iran.

Gli interessi  delle multinazionali petrolifere verso i mercati chiave dell’ Asia si cominciò a manifestare in modo potente all’ inizio degli anni novanta e con la stessa spinta iniziò l’ arrampicata  per piazzare la bandierina sulle  pipeline  afgane che consentivano di risolvere in modo soddisfacente questi interessi assieme al massimo profitto.

Le ambizioni statunitensi furono rappresentate dall’ Unocal, una delle più grandi multinazionali del ramo energetico che concentra le sue attività in Sia e nel Golfo del Messico. Rappresentanti dell’ Unocal e dei loro soci della Delta Oli, una holding  privata dell' Arabia Saudita, presero a tenere contatti ufficiali con la fazioni in guerra dell’ Afghanistan a metà degli anni novanta.

Nel settembre del 1996 Kabul cadde in mano dei Talebani. L’ Unocal e la Delta cominciarono a mettere nero su bianco il progetto di oleodotto da costruire in tempi brevi, cercando anche un accordo tra i Talebani ed i loro oppositori, l’ Alleanza del Nord. Tra il ’96 ed il ’97 le due compagnie formarono il Consorzio Centgas che comprendeva il governo del Turkmenistan, la Petroleum indonesiana, la Hyundai sudcoreana, la Impex e la Itochu giapponese, ed il gruppo pachistano Crescent. Più tardi si aggiunse la Gazprom russa. In questo consorzio l’ Unocal possedeva il 46,5 per cento delle azioni. Il suo presidente, Mr. Todor, sottolineò più volte l’ importanza strategica  del corridoio afgano per smerciare gas e petrolio in Asia. Inoltre l’ Unocal apre un ufficio a Kandahar, base dei Talebani.

Dopo colloqui avvenuti in Texas nel dicembre 1997 tra i Talebani e l’ Unocal (per mettere fuori gioco la compagnia argentina Bridas che in precedenza aveva firmato un accordo con il governo di Rabbani – cacciato dai Talebani – e successivamente dichiarato di voler costruire il gasdotto  firmando un contratto di due miliardi di dollari), nel gennaio del 1998 si arrivò ad un contratto che avrebbe permesso la costruzione di un oleodotto da 700 milioni di piedi cubici l’ anno (la Central Asia Gas Pipeline) capace di trasportare il gas naturale dal Turkmenistan fino al Pakistan, lungo quella che è stata definita la Via della Seta del XXI secolo. L' Unocal si dichiarò disponibile  a pagare ai Talebani 100 milioni di dollari l' anno (due volte  i proventi dalla produzione di oppio).

Il progetto del gasdotto lungo circa 1300 chilometri, partiva dai giacimenti di Dauletabad, tra i più grandi del mondo, attraversava l’ Afghanistan occidentale passando per Herat e arrivando nei pressi di Qandahar. Da qui   proseguiva fino a Multan nel Pakistan, da dove un ramo si sarebbe diretto verso i mari caldi del sud, ed un altro si sarebbe indirizzato in  India.

A fianco della pipeline per il gas l’ Unocal considerava la costruzione di un oleodotto lungo 1600 chilometri, da milione di barili al giorno (Central Asian Oil Pipeline), che avrebbe collegato Chardzou, nel Turkmenistan, al Mare Arabico passando sempre per l’ Afghanistan. Dal momento che la raffineria di Chardzou è collegata ai campi petroliferi della Siberia occidentale, in Russia, questa pipeline serviva a creare una rotta alternativa di esportazione del petrolio proveniente dal bacino del Caspio, tagliando la strada a Russa e Cina.

 

4) RISULTATI PARZIALI E DIFFICOLTA' SUPPLEMENTARI

Un vecchio proverbio dice:  il diavolo fa le pentole, non i coperchi. Mentre la politica fondamentalista dei Talebani - in particolare il trattamento delle donne – assumeva  una notorietà internazionale, l’ Unocal fu costretta a prendere le distanze dal gruppo sunnita.

Nel marzo del 1998 l’ Unocal annunciò un ritardo nella realizzazione del progetto della pipeline per il gas naturale, addebitandolo  alla instabilità che paralizzava il paese ed ai conseguenti problemi finanziari. Il rapporto fra Washington e Kabul comincia a deteriorarsi. Clinton non riteneva più affidabili i Talebani ai fini del controllo del corridoio energetico che invece continuano ad essere sostenuti dal regime saudita.

Nel dicembre dello stesso anno l’ Unocal annunciò ufficialmente il suo ritiro dal Consorzio, citando i bassi prezzi del petrolio e il caos esistente in Afghanistan quali cause che avrebbero reso il progetto troppo rischioso ed antieconomico. Il ritiro deve essere indubbiamente messo in relazione  con le azioni militari USA dell’ agosto contro i campi di Bin Laden, attuate come ritorsione alle bombe che avevano colpito le ambasciate USA in Africa ed alla luce dell’ intensificarsi della lotta fra i Talebani ed i vari gruppi di opposizione.

Mr. Todor, presidente dell’ Unocal, sottolineò più volte che le pipeline centroasiatiche non sarebbero potuto andare avanti fino a che non si fosse insediato in Afghanistan un governo internazionalmente riconosciuto dagli USA e dall’ ONU. Quello che serviva agli interessi delle multinazionali dunque era: o la pacificazione occidentale dell’ Afghanistan o un improbabile cambio di politica statunitense nei riguardi dell’ Iran.

In altre parole le compagnie petrolifere chiedevano al governo Usa di fare tutti gli sforzi possibili  per rendere le pipeline il più possibile sicure al fine di attrarre la maggior quantità di petrolio e di capitali. La defezione dell’ Unocal non significava dunque  la fine dei progetti concernenti  gli oleodotti ma la contrario un loro rilancio su basi più sicure.

Cosa era successo intanto in Afghanistan ? In questo paese la manovra compiuta   dall’ imperialismo USA per tutelare i propri interessi aveva portato a dei risultati contraddittori e parziali.

I Talebani, che si sentivano “raggirati” da un complotto internazionale, alzavano il prezzo riaprendo canali diplomatici con Russia e Cina. Nell’ aprile del 1999 il Pakistan, il Turkmenistan, e l’ Afghanistan arrivarono ad un accordo per riattivare i progetti degli oleodotti e per chiedere al Consorzio Centgas, ora capeggiato dalla Saudi Arabia’s Delta Oil – a seguito del ritiro della Unocal – di procedere nella costruzione. Da parte loro i Talebani cominciarono a riparare una pipeline a Mazar el Sharif.  Fino alla metà del 2000 le discussioni sui progetti continuarono coinvolgendo India, Pakistan, Iran, Turkmenistan, e Afghanistan, sebbene la situazione militare e politica del paese controllato dai Talebani non era migliorata.

Nel frattempo era sceso in campo lo sceicco Bin Laden, il ben noto “combattente per la libertà” che fin dal 1979 era in contatto con la CIA per ingaggiare volontari contro l' URSS. Ma a differenza  di qualche anno prima il suo scopo ora è rompere le uova nel paniere degli yankee che lo hanno mollato.

Bin Laden è strettamente legato al mercato del petrolio. Senza i petroldollari  suo padre non sarebbe divenuto miliardario, senza questi soldi lo sceicco non avrebbe potuto gettare le basi di Al Qaeda.  ll suo obiettivo coincide con quello di un settore della borghesia nazionale dei paesi islamici: gestire in proprio le risorse petrolifere per aumentare le rendite parassitarie. Tatticamente la  mossa  di Bin Laden era quella di evitare che i Talebani finissero nelle braccia degli USA. Non a caso le bombe all’ ambasciata USA in Kenya (l' esplosivo secondo l' FBI proveniva dall' esercito USA ed era stato fornito alle famose brigate internazionali di "volontari") furono accompagnate da un messaggio preciso rivolto agli USA: “fuori dai paesi islamici”. Questo voleva dire più precisamente “fuori dall’ Afghanistan”.

Occorre notare che gli USA, nel fornire la risposta missilistica alle bombe di Bin Laden, dichiararono che le sue forze “non erano appoggiate da nessuno stato”. Tale dichiarazione era un tentativo di salvare capra e cavoli, cioè aumentare la pressione  contro Bin Laden senza compromettere definitivamente le relazioni con i Talebani.

Come unico risultato i Talebani si spostarono su posizioni ancor più isolazioniste ed antioccidentali e si rifiutarono di scaricare Bin Laden.  Gli yankee cominciarono a rendersi conto che il sogno proibito delle pipeline afgane, ovvero il controllo del principale rubinetto energetico del XXI secolo, poteva sfumare per davvero.

Ovviamente gli USA non potevano certo mollare la preda, né potevano inghiottire il rospo di un oleodotto  che  li escludesse o peggio ancora che passasse nelle mani di ambiziose potenze regionali su cui non potevano esercitare una influenza determinante.

La prospettiva di un oleodotto gestito da Arabia Saudita-Talebani-Bin Laden voleva dire la loro estromissione dal “grande gioco” centroasiatico. Una minaccia grave per gli interessi strategici dell’ imperialismo USA dal momento che si profilava “la possibilità che emerga in Asia un rivale militare con una formidabile base di risorse” (documento pubblicato dal Pentagono il 30 settembre 1999). La risposta da fornire veniva indicata nello stesso documento: “cambiare il regime di uno stato avversario ed occupare un territorio straniero finché gli obiettivi strategici statunitensi non siano realizzati”.

Un primo esempio venne fornito nell’ autunno del 1999 con il colpo di stato in Pakistan, dove viene insediata la giunta militare con a capo Musharraf  che sposa una linea apertamente filoamericana, al contrario di quella seguita dall' ex premier Sharif che coltivava buoni rapporti con Iran e Cina.

 

5) IL  CAMBIO DI POLITICA DEGLI "OILMEN"

Negli ultimi anni della amministrazione Clinton la politica USA nei confronti dell’ Afghanistan, sebbene definita nei suoi obiettivi strategici, si dimostrava ancora oscillante. I mezzi per ottenere i suoi obiettivi erano essenzialmente tre: le sanzioni, le minacce "muscolari" e le trattative segrete.

E' interessante notare il carattere delle  risoluzioni adottate dall’ ONU per comprendere alcune particolarità di questa politica.

Questo organismo, a far data dal novembre del 1999, aveva cominciato ad imporre  sanzioni all’ Afghanistan comprendenti il congelamento dei beni dei Talebani - che allora controllavano circa il 90% dell’ Afghanistan – ed il divieto di sorvolo  per le linee aeree nazionali dell’ Afghanistan.

Nel dicembre 2000 il Consiglio di Sicurezza dell’ ONU impose punizioni supplementari nei confronti del movimento fondamentalista, le quali includevano l’embargo sulle armi e la proibizione di vendita di sostanze chimiche usate per produrre eroina. Le sanzioni (risoluzione 1333) erano mirate a far pressione affinché i Talebani estradassero Bin Laden.

Le sanzioni imposte al regime dei Talebani sono però differenti da quelle imposte per es. all’ Iraq. Senza dubbio queste sanzioni sono state più leggere e non hanno mai raggiunto l’ intensità e la distruttività di quelle riservate ad altri paesi. Ciò significa che anche esse avevano un carattere “correttivo” e non miravano a rompere del tutto il rapporto  con lo sceicco Omar per via degli interessi economici sottostanti. Significa al tempo stesso che i Talebani disponevano  ancora di  un certo “potere contrattuale”   nei confronti degli USA, dal momento che l’ amministrazione Clinton si era convinta che il progetto di pipeline passanti per il territorio afgano era la soluzione più corrispondente agli interessi della superpotenza americana.

Un ulteriore  esempio di una politica “anfibia” lo fornisce il fatto che nel mese di maggio 2000 il giornale dei Talebani, Kabul Times, riportò la notizia che il Ministro delle miniere e dell’ industria, Akhod, aveva incontrato rappresentanti di una compagnia a capitale statunitense – la Central Asia Oil and Gas Industry – che si dichiarava pronta ad investire in Afghanistan in cooperazione con il Turkmenistan (che da parte sua aveva aderito fin dal ’94 alla Partnership for Peace della NATO, in ossequio a quella “indipendenza” da Mosca e dall’ Iran sostenuta dagli USA).

Il cambio di amministrazione avvenuto  con la “elezione” Bush ha implicato una più risoluta definizione non solo degli interessi a lungo termine dell’ imperialismo USA ma anche di quelli immediati. Dobbiamo ricordare che sia Bush che il suo vice Dick Cheney (ai vertici della multinazionale energetica Haliburton che ha compiuto investimenti anche in Turkmenistan) ed altri cowboy della Casa Bianca sono tutti “oilmen” perfettamente consapevoli dell’ importanza del petrolio e del gas dell’ Asia centrale per gli equilibri strategici e sono assai  introdotti nei rapporti  con i petrol-sceicchi (lo stesso G.W. Bush, fondatore della Arbusto Energy, tra i cui investitori c'era un fratello di Bin Laden, ha sempre “lavorato” sui mercati arabi). 

Nella seconda settimana della nuova presidenza lo staff di Bush aveva già precisato la nuova politica energetica statunitense. I suoi obiettivi principali sono: aiutare il settore privato (le multinazionali), gli stati ed i governi locali (per rafforzarne la dipendenza) al fine di promuovere una produzione e la distribuzione di energia “affidabile, accessibile ed ambientalmente compatibile” per il futuro degli USA. In altri termini: dobbiamo assolutamente mettere le zampe sul petrolio e sul gas del Caucaso uscendo dall’ impasse.

Dunque c’è un cambio di politica rispetto a Clinton. Se prima la strada preferita  era quella dei Balcani, di avvicinamento graduale alle zone centrali dell’ Eurasia - dove si decide la partita per la supremazia globale - ora si spezzano gli equilibri precedentemente raggiunti  (scudo stellare, rottura dei protocolli di Kyoto, riunificazione della Corea, ecc.) e la priorità è data agli altri "balcani", quelli centroasiatici, a quel buco nero geopolitico che è la cassaforte energetica  del mondo.

Non serve più controllare le periferie, la prospettiva ora è rovesciata. Si punta direttamente al cuore del problema, alla zona critica, con tutti i mezzi necessari, entrando in rotta di collisione con Russia, Cina e gli imperialismi europei. Per questo motivo il governo Bush, fin dalla sua nascita, è apparso come un vero e proprio gabinetto di guerra.

All’ interno di questa nuova politica l’ Afghanistan è una tipica zona  di crescente confronto e scontro tra potenze rivali, in cui gli USA vogliono esercitare il ruolo di arbitro esclusivo per acquisire un vantaggio strategico. Sul piano immediato per l’ amministrazione Bush l’ obiettivo  è evidentemente quello di riconquistare per la terza volta l’ Afghanistan (dopo il governo Rabbani e quello dei Talebani), sloggiando i fondamentalisti ed insediandovi un governo fantoccio (che necessariamente ricomprenda anche l’ etnia pashtun)  più affidabile e soprattutto senza velleità indipendentiste. Non è escluso che se questa ipotesi dovesse fallire si porrebbe all’ ordine del giorno la divisione dell’ Afghanistan (vedi Jugoslavia,  Congo, ecc.).

A ben vedere, l’ ordine e la stabilità politica in Aghanistan non potevano essere altro che il frutto di una campagna militare, che estendesse la presenza occidentale in quella regione del mondo che va dalla Turchia al Pakistan. Una operazione  bellica a largo raggio per consentire alla superpotenza USA di mettere le grinfie sulle riserve petrolifere intatte dell’ Asia Centrale, riconfigurando i rapporti di forza e gli scenari mondiali del XXI secolo. Una guerra per avverare  i sogni proibiti dell’ Unocal, della Exxon-Mobil, della Texaco, dell’ angloamericana BP-Amoco nonché gli interessi dei monopoli del  complesso militar-industriale, di quello farmaceutico, ecc., che vedono in essa (grazie alla politica anticiclica di incremento della spesa bellica  e pubblica, di sgravi fiscali, ecc.),  l' ancora di salvataggio dalla dura recessione che gli USA devono affrontare.

Prima di tirare le somme vogliamo ricordare ancora due fatti che ci sembrano interessanti per comprendere la piega successivamente presa dagli avvenimenti.

Nell' aprile del 2001 la Gazprom russa e l' ENI hanno raggiunto l' accordo per costruire  il gasdotto denominato Blue Stream, che va dalla Russia alla Turchia ed è  volto a rifornire sia  l' emergente mercato turco che l' Europa.  Con questo contratto la Gazprom, oltre ad essere il maggior produttore mondiale di gas naturale, diviene anche il maggiore esportatore. Lo scopo per cui la Gazprom ha scelto questa opzione tecnicamente complicata (il gasdotto deve passare sotto il Mar Nero) è chiaramente quello di occupare il mercato europeo mettendo in difficoltà  Azerbaijan e Turkmenistan quali esportatori di gas e conservando il monopolio. Evidentemente gli USA non hanno visto di buon occhio questo accordo che prevede anche il riavvicinamento fra la Turchia, loro principale alleato nella regione,  e la  Russia, che hanno cercato di tagliare fuori da ogni rotta. E' anche da notare che il precedente progetto che passava per la Bulgaria  è stato abbandonato in seguito alle pressioni statunitensi volte ad  isolare la Russia.

Inoltre a metà di giugno 2001 Putin (la cui candidatura fu sostenuta dagli oligarchi del petrolio russo, in particolare da Viakhirev, l’ ex padrone di Gazprom), Jang Zemin ed i capi del Kazakistan, Kirgisistan, Tagikistan, ed Uzbekistan  hanno firmato un' accordo per creare lo SCO (Shangai Co-operation Organization) che ha l’ intento dichiarato di “controbilanciare la dominazione statunitense nel mondo degli affari” in nome di quel  multipolarismo imperialista sostenuto in particolare da  Li Peng e Jang Zemin. Anche il Pakistan, il Turkmenistan e l’ Iran si sono dimostrati interessati ad entrare in rapporto con l’ organizzazione.

Dal panorama che abbiamo tracciato dobbiamo trarre una prima conclusione: alla data dell’ undici settembre tutti i semi di un sanguinoso conflitto  erano già stati gettati. Quello che mancava era la mobilitazione patriottica e reazionaria delle masse americane, che dal Vietnam in poi si sono dimostrate assai restie all' idea di veder rientrare a casa le "body bags". Come è stato giustamente notato, se l' obiettivo è lo scacco matto si può anche sacrificare la regina per creare le condizioni dell' attacco decisivo.     

Bin Laden è solo una pedina nel “grande gioco”. Questo serpente allevato dalla CIA (e rimasto   in contatto con la casa madre fino allo scorso luglio, secondo quanto rivelato da Le Figaro), nel momento in cui  si è rivoltato contro i suoi ammaestratori ha fornito loro l’ opportunità di avvantaggiarsi della situazione determinatasi per attuare quei  piani aggressivi necessari a realizzare interessi lungamente coltivati. Si era ormai giunti a quel punto in cui, per dirla con Bush, "non c'è più niente da negoziare".

Lo scatenamento della guerra da parte dell' imperialismo USA è dunque la continuazione con mezzi violenti di una politica perseguita da tempo: la politica egemonica e di depredazione dei paesi dipendenti, di soffocamento del movimento operaio che si basa sui colossali interessi del capitale monopolistico finanziario. Una guerra  che non porterà a nessuna soluzione dei problemi esistenti, bensì ne causerà l' aggravamento sotto ogni aspetto.

 

6) CONTRADDIZIONI IN CRESCITA

La guerra cominciata contro l' Afghanistan è una guerra imperialista condotta dagli USA per competere nelle migliori posizioni con le altre potenze nella disputa per il dominio sul mercato mondiale. Essa raggruppa momentaneamente  le forze imperialiste sotto la bandiera della "lotta al terrorismo". Ma il sogno di eliminare le differenze  le rivalità  tra le potenze imperialiste non è avverabile. Lo sanno per primi gli stessi predoni che mentre parlano di "nuovo ordine mondiale", si preparano ad una lotta più intensa fra di loro per la nuova spartizione del mondo, per controllo delle materie prime, per le sfere di influenza.

La realtà ci dice che tutte le principali contraddizioni del sistema imperialista sono in  crescita e si aggravano. La stessa aggressività dimostrata dall' imperialismo, ed in particolare da quella USA,  riflette la gravità della crisi generale in cui si dibatte il sistema di sfruttamento.

Il proposito di sottomettere per sempre la classe operaia ed i popoli, così come di evitare il confronto e lo scontro armato tra paesi imperialisti procedendo ad una suddivisione "ordinata" delle sfere di influenza si rivela ogni giorno di più irrealizzabile. Le contraddizioni fra paesi imperialisti e monopoli capitalisti  fanno parte  della stessa essenza  di un sistema basato sulla concorrenza e  la competitività sfrenata, in cui i  pescecani  divorano i pesci piccoli per poi rivolgersi contro gli altri squali.

La rivalità fra paesi imperialisti  nell’ area del Caucaso e del Caspio è più acuta ed estesa che in qualsiasi altra regione del mondo.

La guerra stessa contro l’ Afghanistan è un risultato ed una manifestazione delle contraddizioni antagoniste fra potenze imperialiste. L' appoggio data da molti paesi tra cui Russia, Cina, Germania, Francia, India,  ecc.  alla guerra di Bush, per evitare reazioni smisurate ed un rafforzamento della supremazia militare angloamericana, nasconde in realtà differenziazioni tattiche sempre più marcate. Le critiche all' azione USA, già espresse in relazione al progetto dello Scudo Antimissile ed altre questioni, si riaffacciano mano a mano,  in relazione a tutte quelle azioni USA che suonano come una minaccia nei confronti degli interessi dei loro rivali imperialisti.

Come diceva Lenin, l' imperialismo è la fonte di tutte le guerre ingiuste. La tendenza che oggi si delinea è chiara: l' imperialismo vuole trascinare il mondo in un' altra guerra disastrosa per cercare di uscire dalla sua crisi generale.

La borghesia fa appello alla violenza per preservare dal crollo il suo  "ordine economico" che va in rovina. Ma, parafrasando Engels, questa è solo una illusione perché i missili della Martin ed i bombardieri della Lockheed, gli elicotteri della Bell e i satelliti della Boeing  non potranno mai cacciar via dal mondo le conseguenze della sempre più spinta socializzazione delle forze produttive, dell' inaudita accumulazione di ricchezza in poche mani, dell' insaziabile sistema finanziario che la borghesia stessa ha messo in piedi.

Nessuno può oggi sapere quanto a lungo si trascinerà questa guerra, in che misura si aggraverà e si estenderà, se condurrà ad altre rivoluzioni.   Sappiamo però quali sono i doveri del proletariato rivoluzionario di fronte alla guerra imperialista:  strappare la maschera alla borghesia imperialista e svelare alle masse la natura della guerra, svegliarne la coscienza rivoluzionaria, aiutare la classe operaia a creare organizzazioni corrispondenti alle situazione, battersi anzitutto contro il proprio imperialismo, lottare per la fratellanza internazionale degli operai contro il patriottismo borghese.

I comunisti, i rivoluzionari, gli antimperialisti, gli amanti della pace e della libertà  di tutti i paesi devono unire le loro forze per sconfiggere la belva imperialista, nell’ interesse della classe operaia e dei popoli oppressi.