La crisi, i ceti medi e il proletariato
Una delle tendenze in
atto in Italia, come conseguenza dalla crisi, è la scomparsa dei piccoli negozi
di quartiere, schiacciati dalle catene monopolistiche della grande
distribuzione. Secondo recenti dati Istat, nel maggio
di quest'anno le vendite al dettaglio sono diminuite del 2,9
% rispetto a quelle del maggio 2008; i piccoli negozianti hanno visto
diminuire del 3,8 % il loro giro d'affari. Per quest'anno la Confesercenti prevede (come saldo negativo fra nuove
aperture e chiusure) la perdita netta di 50.000 botteghe e negozi.
Qualcosa di analogo
avviene nel campo di molte piccole imprese industriali a cui
gli istituti bancari - nel morso della crisi capitalistica - non fanno più
credito. Stritolate dai debiti e dagli strozzini, esse chiudono i battenti
gettando nella disoccupazione i loro operai.
Sembra di leggere alcune
pagine del Manifesto del Partito
Comunista di Marx ed Engels (ma non ci avevano detto che si tratta di
un'opera ottocentesca, obsoleta e priva ormai di ogni aggancio con la realtà
odierna?):
«Quelli che furono
sinora i piccoli ceti medi, i piccoli industriali, i negozianti […], sprofondano nel
proletariato, in parte perché il loro esiguo capitale non basta all'esercizio
della grande industria e soccombe quindi nella concorrenza coi capitali più
grandi, in parte perché le loro attitudini perdono il loro valore in confronto
coi nuovi modi di produzione».
A differenza delle
«altre classi» che «decadono e periscono», «i proletari non hanno nulla di proprio da salvaguardare; essi hanno
soltanto da distruggere tutte le sicurezze
private e le guarentigie private finora esistite».
In che modo? Con «una rivoluzione aperta, e col rovesciamento
violento della borghesia».
Che sia proprio per
questo che, nei discorsi di tutti i partiti politici borghesi, nei «moniti» delle più alte
cariche istituzionali, nei provvedimenti legislativi sfornati a getto continuo
dal Parlamento, non si parla altro che di
«sicurezza»?
Luglio 2009
Piattaforma Comunista