La crisi finanziaria: una minaccia

per  i lavoratori e per i popoli

 

Una delle caratteristiche del neoliberismo è l'enorme dilatazione di quella che gli economisti borghesi chiamano la finanza: le azioni, le obbligazioni e i crediti bancari. Una finanza che «ha un peso equivalente a quattro volte quello del Prodotto Interno Lordo (PIL) mondiale. Mentre, all'inizio degli anni '80, i movimenti di capitale erano ancora equivalenti - nella maggior parte dei paesi - agli scambi di beni e di servizi, il loro ammontare è oggi quattro volte più elevato in Germana, cinque volte più elevato in Giappone e dieci volte in Francia».1

Il dogma del neoliberismo è la «libera circolazione dei capitali», che circolano alla velocità dei computer. Presentato come il fluido vitale del sistema economico mondiale, esso attira le ricchezze nella direzione dei  possessori di capitali. Grazie a questa politica, coloro il cui patrimonio supera il milione di dollari se lo sono visto raddoppiare in questi ultimi dieci anni. E' questo stesso flusso di capitali «liberi» che ha diffuso in tutto il mondo gli effetti di una crisi partita nell'agosto scorso dagli Stai Uniti: la crisi dei crediti immobiliari, i subprimes.

Il sistema finanziario mondiale è oggi colpito da una crisi di grandi proporzioni. Miliardi di dollari, di euro, di yen, ecc. «se ne vanno in fumo». Le banche centrali prestano grosse somme alle banche per evitare che esse diventino insolvibili; ma alcune non sono sfuggite al fallimento.  Il corso delle azioni di numerose imprese, comprese quelle di PME, sta crollando. I responsabili delle banche centrali, delle grandi istituzioni monetarie, della FED nordamericana, della BCE, «navigano a vista». Il piano Bush di riduzione delle tasse, che avrebbe dovuto stroncare la crisi finanziaria e immobiliare, non ha convinto gli uomini della finanza. Molti di loro parlano di un effettivo rischio di recessione che colpirebbe anzitutto gli Stati Uniti, prima potenza economica mondiale, e che avrà gravi conseguenze per tutte le economie.

La parola recessione evoca periodi neri per gli operai, i contadini, gli artigiani, i popoli. Le famiglie nordamericane indebitate, gli operai dell'edilizia, i salariati delle banche e delle istituzioni finanziarie, ecc. sono minacciati direttamente; ma tutti siamo preoccupati per questa crisi che i grandi capitalisti vogliono far ricadere sulle nostre spalle.

 

All'origine della crisi finanziaria: la crisi dei subprimes

 

La crisi dei crediti immobiliari a rischio (i subprimes), cominciata in agosto negli Stati Uniti, si è rapidamente estesa all'intero sistema finanziario nordamericano. Se, in un primo tempo, furono alcune banche di altri paesi, lanciatesi sul mercato dei subprimes, ad annunciare delle forti perdite, oggi è tutto il sistema finanziario nordamericano, e quello internazionale, ad essere colpito dalla crisi.

L'oligarchia nordamericana ha spinto alcuni strati della popolazione a un massiccio indebitamento nel campo immobiliare. Strumento di questo indebitamento sono stati i subprimes, quei prestiti immobiliari che venivano proposti a delle famiglie povere. Questa politica fu lanciata all'indomani dello scoppio della «bolla Internet» (2001), mediante la politica dei bassi tassi di interesse della FED (la Banca Federale USA) che mirava ad orientare gli investimenti verso il settore degli immobili. Ciò provocò un'impennata dei prezzi di questi ultimi. Le banche dicevano ai sottoscrittori che essi non correvano alcun rischio ad indebitarsi, poiché il bene economico, l'alloggio, la casa che si apprestavano a comprare, acquistava valore. Poiché non esiste negli Stati Uniti una politica abitativa di carattere sociale, la gente è costretta a comprarsi la casa. Perciò il settore delle costruzioni edilizie si è fortemente sviluppato, diventando per un certo tempo il motore dell'intera economia. Ma i prezzi hanno cominciato a diminuire, e le famiglie fortemente indebitate hanno cominciato ad avere difficoltà a rimborsare i mutui, i cui tassi di interesse aumentavano continuamente. La caduta del settore edilizio e il credito sempre più caro hanno provocato una catena di mancati pagamenti che ha fatto scoppiare la crisi degli istituti di credito che avevano diffuso i subprimes. Tre milioni di famiglie indebitate per un ammontare di 200 miliardi di euro 2  hanno finito col trovarsi  piene di debiti e senza casa.

Le banche e gli istituti finanziari specializzati nel settore immobiliare, se sono stati i primi ad essere investiti dallo scoppio della crisi dei subprimes,  non sono i soli. Essi, infatti, per «diluire i rischi» a loro ben noti, hanno trasformato quei prestiti immobiliari in prodotti finanziari che hanno collocato sul mercato, corredandoli di un elevato tasso di interesse. E' la cosiddetta «tritisation». Questi prodotti finanziari sono stati riacquistati dalle banche, dai fondi di investimento, ecc., attratti dai loro elevati rendimenti. Ciò ha esteso la crisi dei subprimes all'intero sistema finanziario mondiale.

 

Fra le banche si diffonde una diffidenza generalizzata

 

Partita dal settore edilizio e dal suo finanziamento, la crisi si estende a tutto il sistema dei mutui nordamericani. Le banche cominciano a nutrire, l'una nei confronti dell'altra, il sospetto di detenere nei loro attivi questi famosi prodotti finanziari di dubbia credibilità, e si rifiutano di prestare denaro, per paura di non essere rimborsate. Questa restrizione dei prestiti coinvolge a poco a poco sia i prestiti al consumo delle famiglie, sia quelli alle imprese. Poiché tutte le banche sono sospettate a livello internazionale (ed effettivamente alcune banche europee e giapponesi sono state coinvolte nel fallimento dei subprimes), il fenomeno della restrizione del credito si estende su scala internazionale. Le banche centrali debbono intervenire per prestare denaro alle banche a tassi ridotti. Debbono emettere banconote e iniettare miliardi nel sistema finanziario. La Banca europea ha iniettato parecchie centinaia di miliardi di euro a partire dal dicembre 2007. Una banca britannica, due grandi banche svizzere, sono state investite da questa crisi. Il governo Sarkozy voleva far credere che le banche francesi non fossero minacciate. Ma la BNP ha dovuto chiudere due fondi di investimento e la Société Générale ha annunciato delle perdite. Nel novembre scorso l'«Expansion» osservava, a proposito della Société Générale: « […] Il gruppo diretto da Daniel Bouton è stato costretto ad annunciare, per la prima volta negli ultimi cinque anni, una caduta del suo rendimento netto (1,1 miliardi), con una diminuzione dell'11,5 % rispetto al 3° trimestre del 2006 […] ».

 

La crisi si estende a tutti i settori dell'economia

 

Nonostante l'intervento delle banche centrali, la crisi si allarga. Le perdite delle banche, reali o attese, provocano il deprezzamento della loro capitalizzazione borsistica. Alcune hanno perduto l'80 % dei loro valori di borsa.  Ciò provoca la caduta generale delle borse in tutto il mondo, perché gli investitori prevedono già le conseguenze che questa crisi finanziaria avrà sull'insieme dell'economia, e in questo modo contribuiscono ad amplificarla. Questo timore ha un nome: recessione, una prospettiva che comincia ad essere presa seriamente in considerazione negli Stati Uniti. La crisi della prima potenza imperialistica mondiale, gli USA, non concerne soltanto il sistema finanziario, ma si propaga ai settori di quella che viene chiamata l'«economia reale». Molti indicatori sono in rosso: la disoccupazione ha ricominciato ad aumentare, l'aumento dei prezzi (prodotti petroliferi, prodotti agricoli) e l'aumento del credito pesano sui consumi delle famiglie, che sono il principale motore della crescita USA (il 70 %).

Un rischio di recessione negli Stati Uniti ha conseguenze immediate a livello mondiale. I paesi che esportano negli Stati Uniti, soprattutto la Cina, sono preoccupati. Lo stesso accade nella zona Euro, e in particolare in Francia, le cui grandi imprese esportano buona parte dei loro prodotti negli USA.

I dirigenti dei principali paesi dell'UE, nella loro riunione del 29 gennaio, hanno voluto essere rassicuranti: la crisi riguarda essenzialmente gli Stati Uniti, e non dovrebbe avere gli stessi effetti in seno all'Unione Europea. Si sono impegnati a rispettare l'ortodossia neoliberista: «restano fedeli a un'economia aperta». Lagarde ha addirittura creduto opportuno parlare di una crisi «salutare», di una «purga nel sistema finanziario USA», che non riguarderebbe il nostro paese. Nello stesso momento, la Société Générale annunciava 4,9 miliardi di perdite, attribuite a uno dei suoi «traders» e ai suoi rischiosi investimenti. Anche il Crédit Agricole e le Casse di Risparmio fanno parte della lista di coloro che «soffriranno» di questa crisi. E non tutto viene rivelato pubblicamente, per non scatenare il panico.

 

Una nuova ondata di concentrazioni

 

Questa crisi rilancia il processo di concentrazione monopolistica, con acquisti di banche da parte di altre banche, fusioni, ecc. Già molte banche sono state acquistate da gruppi più potenti. Certi «fondi sovrani»3 del Kuwait, del Qatar, hanno acquisito delle partecipazioni in alcune grandi banche USA minacciate di fallimento (Merrit Lynch, Citigroup), così come il fondo cinese ha acquisito delle partecipazioni nella banca Morgan Stanley. Migliaia di posti di lavoro nel settore finanziario sono in pericolo.

Ma le conseguenze si faranno sentire anche al di là di questo settore. Il rischio di recessione negli Stati Uniti, principali clienti delle imprese europee, avrà delle gravi ripercussioni in tutte le economie. Possiamo affermare che le conseguenze, in termini di ristrutturazioni, di concentrazioni, di soppressione di posti di lavoro, riguarderanno tutti i settori dell'economia mondiale.

 

Le «soluzioni» dei banchieri e degli uomini della finanza

 

Questa crisi avviene nel pieno della campagna elettorale in corso negli Stati Uniti. Bush ha deciso di concedere degli sgravi fiscali alle famiglie e alle imprese per 150 miliardi di dollari. Gli uomini della finanza la considerano essenzialmente una misura elettoralistica,  senza grandi effetti sulla crisi.

Più importante è la decisione della FED di ridurre al 3,5 % il tasso di interesse per il denaro che essa presta alle banche. È la terza riduzione in quattro mesi, la più importante negli ultimi 26 anni! Ciò consente alle banche di poter disporre di capitali a costi inferiori al tasso di inflazione (che è pari al 4,1 %, il più elevato negli ultimi 17 anni).

 Questa politica ha lo scopo di stimolare le banche a mettere a disposizione delle imprese e delle famiglie prestiti a basso tasso di interesse, per rilanciare i consumi. D'altro lato, un ulteriore effetto di questa politica di bassi tassi di interesse è quello di diminuire ancora il valore del dollaro rispetto alle altre monete, favorendo così le esportazioni USA. Un altro effetto è quello di far risalire il corso delle azioni quotate in borsa, valorizzando così la capitalizzazione delle società USA.

La politica della BCE (la Banca Centrale Europea) continua ad essere caratterizzata da tassi di interesse più elevati (4 %). Trichet, il patron della BCE, la giustifica in nome della lotta contro i rischi di inflazione, inscritta nel trattato di Maastricht e ribadita nei trattati successivi. Agli occhi degli uomini della finanza dell'Unione Europea, la principale causa di inflazione è l'aumento dei salari. Di qui il loro avvertimento ai governi:  «Ogni progetto di indicizzazione dei salari in rapporto ai prezzi dev'essere eliminato».

È una dichiarazione di guerra al movimento operaio, nel momento in cui, in molti paesi europei, si sviluppano dei movimenti che mirano a  strappare dei sostanziali aumenti salariali, come in Germania e in Francia. Chiaramente, la classe operaia e le masse lavoratrici non sono responsabili di questa crisi, che mostra quanto questo sistema sia parassitario. Esse non devono pagarne le spese!

 

Note

 

1.           Christian Chavagneux, in «La Finance», serie speciale «Alternatives économiques« , primo trimestre 2008.

 

2.           Cifre fornite da «Le Monde Diplomatique», febbraio 2008.

 

3.           I fondi sovrani sono dei fondi di investimento controllati da alcuni Stati. Sono alimentati dagli introiti petroliferi (soprattutto per quanto riguarda gli Stati petroliferi del Medio Oriente) e dalle eccedenze  commerciali (per quanto concerne la Cina). Rappresentano circa 3000 miliardi di dollari. In precedenza, i governi d quei paesi avevano investito queste somme nell'acquisto di Buoni del Tesoro USA; oggi preferiscono acquistare le azioni in ribasso delle grandi imprese e  delle banche, dandosi come obiettivo un rendimento del 15 %, che è la norma dei fondi di investimento classici.

 

 

(in «La Forge», Organe Central du Parti Communiste des Ouvriers de France, febbraio 2008, pp. 4-5.  Traduzione di «Piattaforma Comunista»).