DOPO LA VITTORIA DI OBAMA

 

Quale giudizio i comunisti possono e debbono dare dell'esito delle elezioni presidenziali americane del 4 novembre?

Prima di tutto, guardiamo il contesto e i dati. Le elezioni sono avvenute in un momento nel quale gli Stati Uniti sono scossi dalla più grande crisi finanziaria ed economica dopo quella del 1929, con 49 milioni di poveri, con l'indice della disoccupazione salito al 6,5% (mai così alto da quattordici anni), con 240.000 posti di lavoro perduti nel solo mese di ottobre, con un crollo delle vendite del 20%, con una gravissima crisi dell'industria automobilistica e di altri importanti settori produttivi, in una fase di lento declino economico e politico dell'imperialismo americano rispetto ai suoi rivali imperialisti europei ed asiatici.

Sono andati alle urne (in cifra tonda) oltre 120 milioni di cittadini USA, il 66% degli aventi diritto. Una percentuale così alta non era mai stata raggiunta negli Stati Uniti. Hanno votato per Obama 63 milioni e 700.000 elettori (il 52% dei votanti) contro i 56 milioni e 250.000 di MacCain (il 46%), con uno scarto di 7 milioni e 450.000 voti. Il vincitore ha ottenuto anche una solida maggioranza al Senato e alla Camera dei Rappresentanti e ha strappato ai repubblicani 11 Stati, fra cui la Virginia, l'Indiana e il North Carolina, che avevano sempre votato contro i candidati democratici Clinton, Gore e Kerry.

Hanno votato per Obama il 56% delle donne, il 66% dei giovani, il 52% dei votanti di età compresa fra i 30 e i 45 anni. Per quanto riguarda il fattore etnico, ha votato per Obama il 95% degli afro-americani e il 66% dei latinos; per MacCain la maggioranza dei bianchi di sesso maschile. Per quanto concerne le differenze di reddito della popolazione, Obama ha stravinto negli strati sociali a più basso reddito, mentre ha perduto o pareggiato nelle categorie dei redditi medio-alti. Una buona percentuale della classe operaia americana ha votato per lui.

In questo scorcio del 2008 è stata sconfitta, ma non certo scomparsa, quell'America di destra, conservatrice, fondamentalista e bigotta, reazionaria e antioperaia, guerrafondaia e razzista, che aveva trovato - per otto anni - in George W. Bush il suo campione politico e, in queste elezioni, il suo rappresentante in John McCain, l'«eroe» della sporca guerra del Vietnam.

In campagna elettorale, il nuovo presidente eletto aveva promesso la fine del rigido unilateralismo di Bush in politica estera e un approccio più multilaterale nei rapporti con i paesi europei e con la Cina e l'India; una nuova politica delle fonti energetiche e di difesa dell'ambiente negli Stati Uniti e nel mondo; assistenza alle famiglie per evitare una nuova ondata di pignoramenti delle case dei sottoscrittori di mutui sub-prime; e soprattutto una riforma del sistema sanitario nazionale a beneficio dei più poveri e la promozione di nuovi posti di lavoro per un rilancio dell'economia americana.

Non vi è dubbio che queste promesse hanno suscitato grandi attese e speranze nelle classi più sfruttate e più povere del popolo americano; e il risultato elettorale, in gran parte, lo testimonia. Fino a che punto, ed entro quali limiti, queste promesse potranno essere mantenute sarà il tempo a dirlo: ma non è difficile prevedere che la maggior parte di esse sarà disattesa.  Certo è che, subito dopo le elezioni, l'atmosfera è già cambiata. La festa sembra finita.

Per esempio, nella sua prima conferenza stampa del 7 novembre il presidente eletto non ha esitato a dichiarare, sulle orme di Bush, che il regime di Teheran rappresenta una minaccia perché sviluppa armi nucleari e appoggia organizzazioni terroristiche. In campagna elettorale Obama aveva promesso (per mandare più truppe in Afghanistan) il completo ritiro dei militari USA dall'Irak entro 16 mesi, ma il Pentagono si è affrettato a dichiarare che ciò non sarà possibile; e si può star sicuri che il complesso militare-industriale metterà in campo tutte le sue pressioni e le sue lobbies per impedire il ritiro. 

 

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La chiave di lettura della vittoria elettorale del Partito Democratico statunitense è stata, per tutta la borghesia italiana (e per i liberal veltroniani e i socialdemocratici al suo seguito), la stantia ripetizione della solita, vuota retorica sul cosiddetto «sogno americano»: per la prima volta nella storia degli Stati Uniti è salito alla Casa Bianca un nero, presentato come simbolo della grande, vera, democrazia americana, che dovrebbe essere assunta a modello in tutto il mondo e che, secondo i suoi esponenti più aggressivi, avrebbe il diritto e il dovere di essere esportata in ogni angolo del pianeta, quando sia necessario anche con le armi. E' stato ripetuto fino alla nausea che Obama sarebbe l'«incarnazione» del sogno americano, dell'«ascensione sociale» possibile a tutti, anche ai più poveri e ai più umili, dimenticando che il senatore dell'Illinois, laureato a Harvard, appartiene all'élite borghese nera, parte integrante della classe dirigente americana, che - in alcuni suoi settori - lo ha apertamente appoggiato, finanziando con 2 miliardi e mezzo di dollari la sua campagna elettorale (il megaspot televisivo di Barack Obama del 29 ottobre è costato, da solo, cinque milioni di dollari).

Certo, l'assunzione di un afro-americano alla Presidenza degli Stati Uniti rappresenta un significativo fatto storico. Ma, per ogni comunista, la chiave di lettura di questo evento deve essere tutt'altra da quella della borghesia, dei suoi organi di stampa e delle sue televisioni: non può essere che una lettura ispirata ai criteri della nostra classe, la classe proletaria.

 

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In primo luogo, non dobbiamo dimenticare quanto già scriveva Federico Engels nel 1891 a proposito delle «due grandi bande di speculatori politici che entrano in possesso del potere» negli Stati Uniti, il Partito Democratico e il Partito Repubblicano: «In nessun paese i "politici" formano una sezione della nazione così separata e così potente come nell'America del Nord. Quivi ognuno dei due partiti che si scambiano a vicenda il potere viene a sua volta governato da gente per cui la politica è un affare, che specula sui seggi tanto delle assemblee legislative dell'Unione quanto dei singoli Stati. […] E la nazione è impotente contro questi due grandi cartelli di politicanti che si presumono al suo servizio, ma in realtà la dominano e la saccheggiano». Nonostante i grandi cambiamenti avvenuti da allora ad oggi negli USA,  questo giudizio rimane ancora, nella sostanza, profondamente vero.

In secondo luogo, è da sottolineare il peso determinante che gli operai, i lavoratori bianchi e neri, hanno avuto nell'elezione di Barak Obama. E' un fatto che invita ad una riflessione, e noi vogliamo farlo rievocando brevemente il ruolo che le lotte operaie e le lotte degli afro-americani hanno avuto nella storia del movimento operaio e popolare degli Stati Uniti. 

Nella prefazione a un'edizione americana della sua classica opera La situazione della classe operaia in Inghilterra, Engels - esaltando l'immensa portata di quella grande ondata di scioperi operai americani che aveva raggiunto il culmine nel 1886 - scriveva:

«La maniera con cui i proletari hanno fatto la loro apparizione sulla scena è assolutamente straordinaria. Ancora sei mesi fa nessuno sospettava nulla, ed ora essi si presentano all'improvviso come masse organizzate, tanto da seminare il panico nella classe capitalistica. […] I movimenti spontanei, istintivi, di queste larghe masse del popolo lavoratore in un paese che si estende in modo così gigantesco, il contemporaneo esplodere del comune scontento di queste stesse masse per le tristi condizioni attribuite ovunque alle stesse ed identiche cause, ha risvegliato in esse la coscienza di essere una classe nuova e particolare della società americana. […] E' molto più importante che il movimento si estenda, che progredisca regolarmente,   metta radici e abbracci quanto è possibile l'intero movimento operaio americano, piuttosto che vederlo partire e progredire fin dall'inizio sulla linea di una correttezza teorica perfetta». E, con audace previsione per un futuro ancora lontano, così concludeva: «Che gli americani un bel giorno ci si mettano, con l'energia e la virulenza loro propria e, in confronto, noi in Europa saremo dei bambini».

Non potendo ripercorrere qui tutto il lungo cammino compiuto dal movimento operaio americano nel diciannovesimo e nel ventesimo secolo, dai Knights of Work degli anni '70 e '80 dell'Ottocento agli Industrial Workers of the World del primo ventennio del Novecento, alle lotte dei camionisti degli ultimi anni del secolo scorso, vogliamo solo ricordare qualche episodio delle battaglie che i proletari statunitensi - sfidando anche i rigori di dure leggi repressive come la legge Taft-Hartley - condussero negli anni '60 del Novecento, quando si registrò il maggior aumento della combattività operaia in corrispondenza della guerra del Vietnam, che aveva causato la perdita costante del potere d'acquisto dei lavoratori, in seguito all'inflazione dovuta all'estensione della guerra indocinese durante la presidenza Kennedy.

Nel dicembre 1962, la lotta di 3.500 tipografi newyorchesi per forti aumenti salariali dette inizio a una battaglia che durò 114 giorni e costrinse alla resa alcuni dei giornali colpiti dallo sciopero, dopo che gli operai ebbero respinto l'arbitrato proposto da Kennedy (quel… grande amico dei lavoratori!).

Nel 1966 New York fu paralizzata dallo sciopero dei 36.000 lavoratori dei trasporti pubblici, che chiedevano la settimana di 32 ore (invece di 40), un aumento di salario del 30%, e il diritto alla pensione dopo 25 anni di servizio. La Corte Suprema dello Stato di New York vietò lo sciopero, ma il sindacalista Mike Quill - che guidava l'azione - stracciò in mille pezzi, davanti alle telecamere, l'ingiunzione ricevuta, esclamando: «Si agiti pure il giudice nella sua toga. Mi rifiuto di interrompere lo sciopero. Andrò in galera, anche se dovessi morirvi dentro».

L'anno dopo, nel maggio 1967, vi fu a Madison Square Garden un raduno di 25.000 lavoratori per protestare contro una nuova legge repressiva dello Stato di New York, la legge Rockefeller, che comminava severe sanzioni contro gli scioperanti dei servizi pubblici (uno dei settori più combattivi del movimento operaio americano). Il presidente dell'AFL-CIO newyorkese tirò fuori di tasca un esemplare di quella legge liberticida e - come aveva fatto Mike Quill - lo fece a pezzi fra l'entusiasmo dei lavoratori.

E nel maggio 1969 i due sindacati industriali più forti e più potenti, gli  United Automobile Workers e il sindacato dei camionisti, ruppero con l'AFL-CIO e crearono una nuova e più battagliera centrale sindacale, l'Alliance for Labor Action, forte di un milione e mezzo di lavoratori dell'automobile e di due milioni di camionisti.

I lavoratori afro-americani sono sempre stati una componente fondamentale della classe operaia americana, a partire dal momento in cui da schiavi neri diventarono proletari neri. Basterà ricordare il ruolo avuto, alla fine dell'Ottocento, dall'United Mine Workers, guidata dal minatore nero Richard Davis. Solo la solidarietà di classe fra tutti i lavoratori, qualunque fosse il colore della loro pelle - agli affermava - avrebbe «risolto il problema razziale, migliorate le condizioni di milioni di persone laboriose, e anche reso il nostro paese quello che dovrebbe essere, un governo del popolo, per il popolo e fatto per il popolo». Nel Novecento il proletariato nero è stato il  protagonista del collegamento fra attacco anticapitalistico in fabbrica e lotta nel tessuto sociale contro la discriminazione e la segregazione razziale, estendendo alle città le rivolte dei ghetti che ebbero il loro momento culminante negli anni Sessanta.

 

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Ma se innegabile è stata, sul piano rivendicativo e sindacale e ad opera dei suoi reparti più avanzati, la combattività della classe operaia americana per la difesa delle sue fondamentali condizioni di vita e di lavoro, il suo tallone d'Achille è stata la sua perenne subalternità politica ai due grandi partiti della borghesia capitalistica americana, il Democratico e il Repubblicano, e l'incapacità della parte più avanzata e cosciente del proletariato - gli operai comunisti (bianchi e neri) - di costruire, sia pure fra immense difficoltà, un partito comunista capace di mettersi alla testa di un grande blocco sociale e politico antagonista al capitale, su basi autenticamente marxiste e rivoluzionarie.

Negli ultimi decenni del secolo ventesimo, una parte consistente della classe operaia degli Stati Uniti è stata succube dell'ideologia del suo nemico di classe e si è considerata parte della cosiddetta «classe media americana», una categoria priva di ogni fondamento scientifico costruita dai sociologi borghesi nella quale vengono ficcati alla rinfusa operai qualificati, impiegati, tecnici, operatori dei servizi e altri strati sociali. La grave crisi economica e finanziaria che si è abbattuta in questi mesi sugli Stati Uniti sta facendo giustizia di questo inganno ideologico: e gli operai più avanzati ne stanno prendendo coscienza sulla loro pelle.

Lunga e difficile sarà la strada che il proletariato - bianco e nero - degli Stati Uniti dovrà percorrere per conquistare, sotto la guida di nuove forze comuniste, la sua coscienza di classe indipendente e rivoluzionaria, condizione indispensabile per riuscire ad abbattere il dominio politico della classe capitalista ed imperialista americana e instaurare in quel grande paese la propria dittatura di classe. Ma, quando ciò avverrà, l'auspicio di Federico Engels sarà realizzato e, insieme al suo, quello di tutti i comunisti che oggi lottano nel mondo per la fine dello sfruttamento dell'uomo sull'uomo, per il socialismo.

 

10 novembre 2008                                        Piattaforma Comunista