Un importante momento di rottura col revisionismo:

la fondazione del Partito Comunista d’Italia

(marxista-leninista)

 

Quarant’anni fa, il 15 ottobre 1966, veniva fondato a Livorno - nella continuità col partito diretto da A.Gramsci e nel quadro della grande battaglia internazionale fra marxismo-leninismo e moderno revisionismo - il Partito Comunista d’Italia (marxista-leninista).

La sua nascita era stata preceduta, fin dal 1961, dalla costituzione in varie città italiane dei primi gruppi m-l, alcuni dei quali si unificarono poi nel «Movimento marxista-leninista italiano», e dalla pubblicazione nel 1964 del periodico «Nuova Unità» che condusse un’efficace battaglia ideologica e politica contro il revisionismo togliattiano e kruscioviano. 

Fin dalla sua nascita, il partito rivendicò nella sua «Dichiarazione di principio» in cinque punti, «il patrimonio ideale del Manifesto dei Comunisti del 1848, della Comune di Parigi, della Rivoluzione d’Ottobre, della III Internazionale, della fondazione del Partito Comunista d’Italia nel 1921, della rivoluzione cinese», e si ricollegò alle esperienze più avanzate della Resistenza e della guerra partigiana contro il nazifascismo.

Contro le teorie togliattiane sulla necessità di una «nuova rivoluzione democratica« in Italia, il PCd’I (m-l) affermò giustamente che, dato il grado di sviluppo dei rapporti di produzione capitalistici nel nostro paese, la rivoluzione italiana non poteva essere che una rivoluzione socialista; affermò che «la dittatura del proletariato è l’unica forma di governo che la classe operaia, abbattuta la dittatura borghese, deve necessariamente adottare per difendersi dalla controrivoluzione e costruire il socialismo»; e - fino al suo III Congresso (Firenze, 1978) - portò avanti complessivamente, nonostante alcuni limiti ed errori, una linea politica marxista-leninista, organizzando nelle sue file e in quelle dell’Unione della Gioventù Comunista alcune migliaia di militanti e arrivando a formare politicamente - nel suo periodo di maggiore espansione - circa 2 000 quadri.

Negli anni Sessanta e Settanta il PCd’I (m-l) si schierò risolutamente a fianco del Partito Comunista Cinese e del Partito del Lavoro d’Albania nella lotta contro il revisionismo kruscioviano, e portò avanti giuste posizioni internazionaliste di appoggio alla lotta di liberazione del popolo del Vietnam e di altri popoli contro il colonialismo e l’imperialismo.

In Italia i suoi militanti presero parte attiva, direttamente o attraverso i Comitati di Lotta, ad alcuni importanti momenti dello scontro di classe, soprattutto nel Meridione, fra i contadini del crotonese e in alcune piccole e medie fabbriche di Napoli, Cagliari e Bari, riuscendo anche, in alcuni casi, a prendere in mano la direzione della lotta. Tuttavia, dal punto di vista del rapporto col proletariato, il limite principale del PCd’I (m-l) fu il suo scarso radicamento nella classe operaia delle regioni del Nord, dove i militanti del partito non riuscirono quasi mai a contrastare efficacemente l’egemonia dei revisionisti e degli operaisti. 

Vi furono anche limiti ed errori di carattere teorico. Uno di essi fu l’«idealizzazione» dei Consigli di fabbrica, considerati come l’«embrione» del futuro Stato di dittatura proletaria, con un richiamo alle posizioni teorico-politiche gramsciane degli anni 1919-20 e non a quelle che, anche sul ruolo dei Consigli di Fabbrica, Gramsci maturò nel 1924-26 dopo la piena assimilazione del leninismo e della linea della Terza Internazionale.

Ma il fatto più gravido di conseguenze fu un altro. All’interno del gruppo dirigente fu sempre presente una tendenza che, al di là delle dichiarazioni verbali, non considerò mai il PCd’I (m-l) come un partito realmente autonomo dai partiti «storici» del movimento operaio italiano, ma come un «polo esterno» che avrebbe dovuto condizionare in misura crescente alcuni quadri e dirigenti di «sinistra» del partito togliattiano, in collegamento con una presunta «sinistra» interna al PCUS revisionista.

Questa tendenza purtroppo prevalse negli ultimi mesi del 1980 e, con la pubblicazione del quotidiano «Ottobre» di orientamento filobrezneviano, modificò profondamente la linea internazionalista di lotta contro l’imperialismo e il socialimperialismo seguita fino ad allora, e aprì nel Partito una grave crisi politica e organizzativa che portò all’uscita di alcuni Comitati provinciali e alla perdita di molti militanti. Anche dopo la chiusura di «Ottobre», l’indebolimento del PCd’I (m-l) continuò nel corso degli anni Ottanta, finché - nel suo VI Congresso (straordinario) del 1991 - esso si autoliquidò, sciogliendosi e confluendo nel Movimento che dette vita al socialdemocratico Partito della Rifondazione Comunista.

I comunisti che, nelle mutate condizioni odierne, portano nuovamente avanti la battaglia per il partito rivendicano la continuità con le esperienze del movimento m-l italiano degli anni ‘60 e ‘70, ma ripensandole criticamente al fine di assimilarne tutti gli aspetti positivi e rivoluzionari e respingerne le deviazioni e gli errori. Solo così sarà possibile assicurare più salde basi ideologiche e politiche alla ricostruzione del Partito comunista nel nostro paese.