Totalitarismo:

un concetto fuorviante

 

Da parecchi anni si è consolidata in Italia la presenza di un blocco storico-giornalistico revisionista[1] tendente a rilegittimare il fascismo (o quantomeno alcuni aspetti di esso) e ad attribuire l’etichetta di male assoluto al binomio comunismo-nazismo accomunato dall’infamante epiteto di “totalitarismo”.

 Quest’ultima concezione è penetrata anche negli Istituti Storici della Resistenza, che in passato avevano rifiutato di associarsi all’opera di mistificazione storica promossa dai revisionisti.

Su questo argomento intendiamo intervenire su “Teoria & Prassi” al fine di confutare la diffusa opera di mistificazione storica in atto; ci riferiamo in particolare al libro “Lager, totalitarismo, modernità” pubblicato a cura dell’Istituto ligure per la storia della resistenza e dell’età contemporanea che contiene alcuni saggi ispirati all’ideologia dell’inclusione del comunismo e del nazismo all’interno di un unico genere, quello, appunto, del totalitarismo.[2]

L’ esperienza storica del nazismo e del comunismo viene racchiusa nella formula, adottata dallo storico Traverso, che il novecento ha “fatto naufragio del politico, se si intende per politico uno spazio aperto al conflitto, al pluralismo delle idee e dell’azione dei cittadini, all’alterità, alla divisione del corpo sociale”.[3] Il “politico” cui si riferisce Traverso è l’idea della democrazia borghese liberal-democratica alla quale si opporrebbe il totalitarismo che “ha cercato di eliminare questo spazio riducendo l’umanità a comunità organica, monolitica, chiusa; il totalitarismo ha assorbito la società civile nello stato, sopprimendola, soffocandola”.[4]

La dialettica concettuale liberalismo-totalitarismi (nazismo-comunismo), inventata dagli storici totalitaristi,  è una dialettica astratta e non reale. Tale dialettica risponde all’esigenza, da parte della storiografia liberale, di conferire valore universale, di civiltà, alla politica conservatrice di classe adottata dai partiti liberali a cavallo tra a fine del XIX secolo e l’inizio del XX secolo.

Totalitarismo non è un concetto storico, una categoria storica, un principio di ricerca storica, ma uno schema pratico-ideologico utile alla propaganda politica della borghesia liberale in quanto risponde:

1)      all’esigenza della cultura borghese di conferire valore universale alle istituzioni ed ai valori borghesi storicamente in crisi, in quanto divenuti sul piano concreto della storia elementi di copertura di brutali interessi particolari di classe. A Traverso sfugge che la prassi delle società borghesi è la negazione storica della sua idea di “politico”; gli sfugge che è stata la stessa borghesia a ritrarsi dai suoi “immortali principi” (libertà, uguaglianza, fratellanza), ad abbandonarne il progressivismo ottimista a mano a mano che la coscienza di classe del proletariato  si elevava in coscienza della sua universale funzione storica in cui s’inverava la lotta per la sua emancipazione e  i suoi diritti. Per usare la stessa terminologia di Traverso il “politico” è stato abbandonato e distrutto dalla stessa borghesia imperialista che ha finanziato e sostenuto il fascismo e il nazismo scegliendoli come forma di governo totalitaria di gestione della società borghese italiana e tedesca.

2)      Ad un’esigenza politica contingente. Scrive Traverso: “Il concetto di totalitarismo è necessario per conservare la memoria di un secolo che ha conosciuto Auschwitz e Kolyma, i campi di sterminio nazisti e i gulag di Stalin […] il concetto di totalitarismo iscrive questa esperienza del Novecento nella nostra coscienza storica e nella nostra memoria collettiva. Per questo non possiamo farne a meno”.[5]

Il concetto totalitarismo che riduce Hitler e Stalin a due facce, due attributi della medesima sostanza è un’ipostasi, cioè una entificazione, una sostantificazione del concetto sul piano storico come soggetto ontologico, reale. Il totalitarismo, inteso come l’in sé del comunismo e del nazismo, è una realtà limite teoretica che paralizza la ricerca storica, piegandola all’obiettivo di ridurre le differenze etiche, di substantia tra nazismo e comunismo, a semplici accidens della medesima sostanza per cui l’esperienza storica del comunismo e del nazismo si astrae dalla sua storicità e finisce per polarizzarsi attorno all’ipostasi totalitarismo.

 

I campi di concentramento sono una creazione dei regimi liberali

Ad una verifica storica tutti i luoghi comuni risultano falsi; è falsa la tesi secondo cui i campi di concentramento del XX secolo siano la diretta filiazione dei regimi totalitari.

Storicamente l’inventore dei campi di concentramento fu il generale Valeriano Weyler y Nicolau che, al fine di reprimere la rivolta in corso negli ultimi anni del XIX secolo a Cuba contro la dominazione spagnola, stabilì la deportazione di circa 400.000 vecchi, uomini, donne, bambini in Campos de concentracion provocando un numero estremamente elevato di vittime; la cattolicissima Spagna premiò il generale Weyler insignendolo di numerose onorificenze nobiliari e nominandolo per ben tre volte ministro della guerra. Pochi anni dopo furono gli Stati Uniti a ricorrere ai campi di concentramento nella Filippine come deterrente per combattere la guerriglia guidata da Emilio Aguinaldo contro l’occupazione statunitense.

L’originale spagnolo e la copia americana vennero ben presto superati dagli inglesi quando i boeri si rivoltarono contro le truppe britanniche. Gli inglesi distrussero le fattorie boere ed imprigionarono donne e bambini in concentration camps fatti di tende e baracche, privati di riscaldamento e di cibo, condannati a morire di stenti.

In Italia il governo liberale di Giolitti (marzo 1911-marzo 1914) fa ricorso alla deportazione di massa in campi di concentramento nelle isole italiane Ustica, Tremiti, Ponza, Favignana per stroncare la resistenza della popolazione araba alla occupazione della Tripolitania da parte delle truppe italiane. Le migliaia di libici deportati in Italia morirono falcidiati dalla fame e dalle epidemie e nessuno tornò nel proprio paese. In piena continuità con il liberale Giolitti, il governatore della Libia occupata dai fascisti, Badoglio, deportò l’intera popolazione della città di Gebel (100.000 persone) in 15 campi di concentramento con il vessillo tricolore. Alla fine tra le esecuzioni sommarie dei deportati, l’estenuante marcia forzata di trasferimento nei lager, la fatica del lavoro forzato, furono 50.000 il numero dei libici che non riuscirono a sopravvivere a quelle disumane condizioni di prigionia.

SEGUE NELLA RIVISTA