La guerra in Ucraina, amplificatrice della militarizzazione

Il termine militarizzazione sta diventando un luogo comune. Viene utilizzato sempre di più per descrivere – e spesso denunciare – fenomeni che stanno accelerando, stanno crescendo, invadono sempre più ambiti. La ricerca, lo spazio, l’economia si “militarizzano”.
Parliamo di militarizzazione delle menti quando, ad esempio, vagliamo i discorsi di Macron e del suo ministro Sarah El Haïry, che vogliono universalizzare e rendere obbligatorio l’inquadramento di tutti i giovani, ragazzi e ragazze dai 15 anni in su, nel programma del Servizio Nazionale Universale (SNU). Parliamo anche di “militarizzazione della società” per descrivere il peso della spesa statale destinata all’acquisto di armi, al reclutamento di militari, al loro addestramento, al costo delle operazioni militari… comparata alla spesa “sociale”.
Parliamo di “militarizzazione dell’economia” per evidenziare il peso delle industrie degli armamenti il cui cliente è lo Stato francese, che destina gran parte del “bilancio della difesa” all’acquisto di queste armi. Non solo il bilancio degli armamenti è in costante aumento da anni rispetto ai “bilanci sociali”, ma gli impegni finanziari sono distribuiti su periodi di lunga durata, attraverso leggi pluriennali di programmazione militare, per cui è difficile conoscere l’ammontare reale di questa spesa. Ed è il capo dello Stato e il ministro della difesa che promuovono l’aereo da caccia Rafale e altri materiali bellici, che annunciano i “contratti del secolo”, omettendo di specificare che il più delle volte, è lo Stato francese che anticipa il denaro – sotto forma di prestiti agli Stati acquirenti – e che paga i monopoli della lobby militare-industriale.
Non è un caso che, oggi, il monopolio privato Dassault raggiunga i suoi migliori risultati nel ramo dell’”aviazione militare”. Il mito del motore tecnologico per l’intera economia, che sarebbe costituito dal settore delle industrie degli armamenti, viene infranto nei fatti: queste industrie si avvantaggiano dei progressi tecnologici compiuti da altri, ne sviluppano alcuni, ma l’intero settore “grava” molto pesantemente sull’intera economia ed è un freno allo sviluppo delle tecnologie in altri ambiti, soprattutto quelli che producono beni di consumo.
È quanto il manuale di economia politica dell’Accademia delle Scienze dell’URSS spiegava nel 1955: “La corsa agli armamenti provoca progressi tecnici nei rami della produzione bellica e nei rami dell’industria pesante ad essa collegati”. Ciò avvantaggia ovviamente i monopoli che dominano questo settore.”
Ma, come sottolinea il manuale, “La natura economica della militarizzazione dell’economia è che, in primo luogo, una percentuale crescente di prodotti finiti e materie prime sono assorbiti dal consumo improduttivo di guerra o bloccati sotto forma di enormi riserve strategiche”. Si sviluppano le condizioni di una crisi di sovrapproduzione e “(…) i monopoli dominanti ricorrono sempre più alla militarizzazione dell’economia per ottenere un certo aumento della produzione e garantire i massimi profitti.”
Le linee generali di questa analisi rimangono valide oggi per i paesi capitalisti imperialisti occidentali, ed è valida anche per l’imperialismo russo, cinese, giapponese …
La corsa agli armamenti.
Si tratta di una delle manifestazioni molto concrete e visibili della militarizzazione. “Ucraina, gli aiuti militari occidentali hanno raggiunto un punto di svolta”, titolano i media, che elencano le grandi quantità di armi che alimentano questa guerra “ad alta intensità”. Le consegne sono accompagnate dall’installazione di depositi di munizioni, di pezzi di ricambio, di officine di riparazione, costruiti nei paesi limitrofi dell’Ucraina, ma sufficientemente prossimi al confine. Le basi NATO si stanno moltiplicando in questi stessi paesi, come quella di Cincu, in Romania, sotto l’autorità dell’esercito francese, che vi ha inviato più di 1.000 uomini, carri armati Leclerc e altri veicoli corazzati.
Allo stesso tempo, diversi Stati dell’Unione europea si danno agli acquisti di armi dai monopoli statunitensi (che non riescono a tenere il passo con tutti gli ordini) e da altri nuovi venuti del mercato mondiale, come la Corea del Sud. I leader polacchi ambiscono a dotarsi nei prossimi anni del “più grande esercito d’Europa” (a parte la Russia), acquistando un migliaio di carri armati, più di 600 cannoni semoventi, cinquanta aerei da combattimento dalla Corea. Il colosso Hanwha, che ha assorbito la divisione militare di Samsung (conosciuta in tutto il mondo per i suoi telefoni) e vuole acquisire il colosso della cantieristica navale DSME, (controllata da Daewoo), si è sviluppato sulla scia della guerra di Corea (1950-1953), producendo su licenza statunitense. Ha iniziato vendendo a “paesi emergenti” e ora si rivolge a un mercato mondiale in espansione, ambendo a diventare il quarto più grande venditore di armi al mondo.
L’imperialismo tedesco, per voce del cancelliere socialdemocratico che guida la coalizione di governo, ha annunciato “una svolta epocale” (Zeitenwende) inaugurata da un piano eccezionale di 100 miliardi di euro per l’esercito. Da allora, si sono susseguite “fughe di notizie” sullo stato delle attrezzature (metà dei carri armati moderni fuori uso, flotta indisponibile, mancanza di manodopera…), che sono state utilizzate per stigmatizzare gli “anni perduti” a causa del pacifismo e per cercare di criminalizzare la contestazione di questa guerra, che rimane forte nei ceti popolari in Germania. In Giappone, dove la costituzione aveva parimenti messo dei freni al militarismo, le forze reazionarie, con connotazioni nazionaliste dichiarate, vogliono eliminare questi freni. Il governo, che condivide questo orientamento, ha deciso di raddoppiare il bilancio della difesa e ha introdotto il concetto di “capacità di contrattacco”, e si è prefissato di raggiungere il 2% del PIL per il bilancio della difesa entro il 2027.
Il nemico è identificato esplicitamente nella Cina, per non parlare della Corea del Nord e del riavvicinamento Cina-Russia nel Mar Cinese Orientale (Taiwan compresa). Lo stesso vale per la Corea del Sud (come abbiamo visto sopra), e questa politica è portata avanti in collaborazione con l’imperialismo statunitense, che vede la vasta regione Asia-Pacifico come quella del confronto con la Cina, designata come il principale nemico degli Stati Uniti.
Gli analisti della situazione mondiale parlano della “fine della globalizzazione pacifica” e della “globalizzazione armata” che sarebbe in atto oggi. Ciò che si rivela con più evidenza è che il sistema capitalista imperialista, che ingloba tutti i paesi, è un sistema in affanno, il che significa miseria, super sfruttamento, esacerbazione delle tensioni e guerre di spartizione. La soluzione per i lavoratori e i popoli è lottare, in ciascun paese e congiuntamente, per il suo rovesciamento.
Pubblicato su La Forge n. 646, gennaio 2023, organo centrale del Partito Comunista degli Operai di Francia – PCOF
(traduzione a cura della redazione)
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