Lavoro produttivo e improduttivo: sommario storico

Partito del Lavoro – EMEP (Turchia)

Pubblicato sulla rivista “Unità e Lotta”, n. 43 –  novembre 2021

Organo della Conferenza Internazionale di Partiti e Organizzazioni Marxisti-Leninisti, CIPOML

 

Introduzione

Le fonti e l’accrescimento della ricchezza sociale sono stati uno dei campi d’indagine di maggiore rilevanza dalla nascita della moderna economia politica. Si è dibattuto sulla fonte del valore, plusvalore, profitto o rendita; su che tipo di lavoro può creare un nuovo valore; su quali classi sono economicamente produttive, ecc.

Nella letteratura economica, questa discussione è proseguita sulla base della distinzione tra lavoro produttivo e improduttivo, almeno dopo che i mercantilisti avevano spiegato il plusvalore con l’eccedenza del commercio estero. I fisiocratici consideravano produttivo il lavoro agricolo e definivano il resto come classi improduttive. Adam Smith, il fondatore dell’economia politica classica, separava nettamente il lavoro produttivo dall’improduttivo, esprimeva la sua simpatia per il lavoro manifatturiero che produceva profitti per il capitalista, e la sua antipatia per il lavoro dei servizi improduttivo, impiegato nelle dimore dell’aristocrazia feudale.

Con l’avvento dell’economia neoclassica, nella seconda metà del XIX secolo, il dibattito sul valore e il plusvalore fu sostituito dal dibattito sulla produttività. L’economia neoclassica ha ricondotto il valore e il plusvalore al profitto creato da vari fattori coinvolti nel processo di produzione, ed ha considerato produttivi ogni specie di lavoro e attività generatori di reddito nel mercato.

Anche a distanza di quasi centocinquanta anni dalla sua comparsa e con l’aggiunta di nuovi elementi, i presupposti della teoria neoclassica costituiscono la base della “corrente principale” dell’attuale economia ortodossa. Non solo la corrente principale, ma anche diverse scuole di economia critica eterodossa suggeriscono che la distinzione tra lavoro produttivo e improduttivo è impropria. Secondo questi approcci, alcuni nuovi fenomeni che si manifestano nel capitalismo moderno, come l’espansione relativa del settore finanziario e la diffusione delle tecnologie digitali, hanno reso questa distinzione non più valida o meno importante.

La concezione del lavoro produttivo di Karl Marx è basata sul patrimonio di conoscenze accumulato e sull’eredità dell’economia politica classica. Esaminando i rapporti di produzione capitalistici nella loro storicità, Marx si è avvalso del patrimonio scientifico degli economisti politici classici, ma allo stesso tempo si è allontanato da essi. La concezione di Marx in merito continua ad essere importante e pertinente per interpretare i nuovi fenomeni del capitalismo contemporaneo, come anche ciò che ha ereditato dal passato. Tuttavia, per molti anni vi è stata confusione a proposito della definizione di Marx di attività produttiva e improduttiva. Dopo la seconda guerra mondiale, la rapida espansione dell’occupazione nel settore pubblico e nei servizi e la crescente proporzione dei lavori d’ufficio nell’occupazione alimentarono il dibattito sulla questione se le attività di queste imprese e professioni fossero produttive. [[1]]

Tutta questa confusione fu causata dalle condizioni economiche, politiche e sociali dell’epoca, così come contribuì la tardiva disponibilità delle traduzioni russe e inglesi di manoscritti che Marx aveva preparato e progettato come il quarto volume de Il Capitale, poi intitolato Teorie del plusvalore. L’edizione russa completa fu terminata solo nel 1964 e quella inglese nel 1971. Comunque, spesso si esprimono diversi punti di vista erronei con riferimento a differenti brani di Marx nella sua opera Il Capitale e ad altri passi.

In questo articolo si esaminerà la nascita, lo sviluppo e i punti chiave della distinzione tra lavoro produttivo e improduttivo, soprattutto nell’ambito del dibattito nel XVIII e all’inizio del XIX secolo. Mentre si segnalano i progressi nello sviluppo dell’economia politica, si evidenzieranno particolarmente il contributo, la differenza di metodo e l’importanza di Marx.

 

I mercantilisti e il commercio estero

Il mercantilismo è una concezione che include le politiche economiche che hanno permesso che il capitalismo si diffondesse in tutta Europa durante la seconda metà del XVI secolo, ma che si affermarono con forza nel XVII secolo una volta manifestatosi il loro vero contenuto. Innanzitutto è stata una fonte di misure che perseguivano chiaramente l’obiettivo della ricchezza e del profitto e lo legittimavano con il potere statale. Come politica economica, il mercantilismo ha permesso di creare le condizioni necessarie per conservare i benefici commerciali e la ricchezza che derivavano dal colonialismo. [[2]]

La scoperta e la colonizzazione dei territori d’oltremare causò un rapido ampliamento del volume commerciale a partire dal XVI secolo. Come risultato della propria attività commerciale, i commercianti acquisirono il controllo della produzione agricola e della primordiale industria domestica e prosperarono rapidamente. Con la produzione di merci che si sviluppò nello stesso periodo, aumentarono i problemi della struttura feudale classica, e le finanze dello Stato furono incapaci di sostenere il costo dei lussi aristocratici, le guerre e i disastri naturali. Pertanto, le monarchie, sempre più centralizzate e più vicine alla forma di stato-nazione, assicuravano i benefici e le attività dei commercianti per sostenere le finanze pubbliche esauste. [3] La difesa degli interessi commerciali giocava un ruolo centrale nella concezione mercantilista. I suoi principali rappresentanti, come Thomas Mun, erano anche direttori di società commerciali coloniali come la British Company delle Indie Orientali. [[3]]

Il problema principale su cui s’incentrò la politica economica nell’era mercantilistica fu: come garantire la ricchezza dello Stato? Ovvero: «Qual è la fonte della ricchezza, cioè il valore, e come si può aumentare?». La risposta a questa domanda era «aumentando le riserve d’oro e d’argento». Se il paese non possiede una miniera d’oro, il commercio estero è il modo migliore per garantirsela. [5]

Nei testi mercantilisti si può vedere che si considerano i guadagni del commercio estero come unica forma di plusvalore, per cui sono considerati l’unica fonte di accumulazione e di entrate dello Stato. Davenant, ad esempio, dichiarava che il commercio interno non arricchisce le nazioni, semplicemente trasferisce la ricchezza da un individuo all’altro, mentre solo dal commercio estero deriva nettamente la ricchezza nazionale. Quando affermava «un’aggiunta netta alla ricchezza del paese», Davenant si riferiva alla crescita del plusvalore; proprio come facevano i fisiocratici opponendo la produttività dell’agricoltura alla «sterilità» dell’industria. [[4]] Nel mercantilismo il plusvalore è solo relativo; l’uno perde quello che guadagna l’altro. [[5]] I guadagni derivanti dal trasferimento sono in realtà la redistribuzione della ricchezza tra classi differenti; non viene creato alcun nuovo valore. Il fatto che il commercio nella sua forma pura non crea valore, e che il valore non può essere una merce, è stato confermato storicamente dalle esperienze degli Imperi di Spagna e Portogallo, che applicarono politiche mercantilistiche e si ritrovarono a mani vuote. La questione è cosa dà valore al metallo prezioso.

Poiché il mercantilismo si basa sulla forma del plusvalore assoluto, i suoi critici, i fisiocratici, hanno cercato di spiegare il plusvalore assoluto, cioè il «prodotto netto». E poiché il prodotto netto è tuttavia ancorato nella loro concezione al valore d’uso, terra e lavoro agricolo sono l’unico suo creatore. [[6]]

 

I fisiocratici e il dono della natura

La teoria fisiocratica è una delle espressioni teoriche della società capitalista, che cominciava a predominare all’interno della società feudale. Ma l’involucro feudale del sistema fisiocratico si è conservato tenacemente.

Per questo il sistema fisiocratico non è nato in Inghilterra, paese prevalentemente industriale, commerciale e marittimo, ma in Francia, dove predominava l’agricoltura. [[7]] Come i mercantilisti, i fisiocrati cercavano l’origine della ricchezza (plusvalore), ma, a differenza dei mercantilisti, sostenevano che si origina nella produzione e non nello scambio [[8]].

Essi fissarono il giusto principio sostenendo che solo il lavoro produttivo crea plusvalore. Quando il valore delle materie prime e degli altri materiali è dato e il valore della forza lavoro è costante [[9]], il plusvalore è reso possibile producendo di più di quanto il lavoratore consuma.

Essi trasferirono la ricerca dalla sfera della circolazione alla sfera della produzione, ponendo così le basi per l’analisi della produzione capitalistica. [[10]] I fisiocratici criticarono l’illusione che lo scambio tra due merci crea plusvalore; tuttavia, il loro limite dipendeva dal livello di sviluppo capitalistico del tempo.

La rendita fondiaria appariva come la sola forma naturale di plusvalore, in una società alla cui base erano un’industria appena ai suoi albori che impiegava lavoro salariato e la piccola produzione, nella quale i privilegi del sistema feudale si conservavano nonostante fosse in via di dissoluzione.

La produttività del lavoro era ancora molto bassa e il numero di lavoratori impiegati da un solo capitalista non era molto grande. Di conseguenza, era difficile pensare a profitti considerevoli investendo nell’industria. [[11]] La differenza tra il valore della forza di lavoro e il valore che crea, cioè il plusvalore, appare nell’agricoltura nel modo più tangibile e incontestabile tra tutte le branche della produzione. La quantità di valore d’uso [[12]] creato dall’operaio agricolo è maggiore del valore d’uso che consuma. Pertanto, rimane un’eccedenza di valore d’uso. Se il lavoro, infatti, riproducesse solo i valori d’uso di cui necessita, non rimarrebbe nessuna eccedenza. [[13]]

È qui che i fisiocratici distinguono tra agricoltura e altre branche della produzione: la produttività della terra consente al lavoratore di produrre più di quanto consuma. In questa teoria, il plusvalore appare come un “dono della natura”. Il lavoro agricolo funge da mezzo che consente alla natura di realizzare il suo potenziale. [[14]]

D’altra parte, la dottrina fisiocratica considerava decisamente il proprietario fondiario e il contadino rispettivamente come capitalista e lavoratore, ritenendo l’eccedenza come un prodotto dei lavoratori. La forza produttiva della natura/terra e la concezione di essa come eccedenza prodotta dal lavoratore convivevano in modo contraddittorio.

Turgot, uno dei pensatori fisiocratici, svelò questa contraddizione e cercò di superarla:

Non appena il lavoro dell’agricoltore produce in misura superiore ai suoi bisogni, egli, con questo superfluo che la natura gli concede come puro dono, oltre il salario delle sue fatiche, può comprare il lavoro di altri membri della società. Questi, vendendo lavoro a lui, guadagnano soltanto il necessario per vivere; l’agricoltore invece, oltre alla sua sussistenza, riceve una ricchezza indipendente e disponibile che egli non ha affatto comprato, ma che vende. Egli è dunque l’unica sorgente delle ricchezze che, con la loro circolazione, animano tutti i lavori della società, poiché egli è il solo il cui lavoro produca un’eccedenza sul salario del lavoro.” [[15]]  Turgot indicò che il lavoratore agricolo produce un’eccedenza “oltre il suo salario“. Poiché questa eccedenza è un prodotto tangibile, lo rappresenta come valore addizionale.

Tuttavia, egli concepisce il valore del lavoro umano non come una forma determinata di esistenza sociale, ma come differenti specie di cose materiali (prodotti agricoli). Nella sua concezione, tra tutte le branche della produzione, il plusvalore è indiscutibilmente prodotto solo nell’agricoltura. Il lavoro agricolo è l’unica forma produttiva di lavoro. L’operaio delle manifatture non può produrre più del valore dei propri mezzi di sussistenza; non può aumentare la massa materiale, cambia semplicemente la sua forma. [[16]]

I fisiocratici identificavano il valore con il prodotto tangibile, non con il tempo di lavoro richiesto per la produzione della merce.

Di conseguenza, la trasformazione del seme in un prodotto produce la crescita fisica, mentre la produzione industriale consiste nel cambiare la forma delle materie prime.

Pertanto, per i fisiocratici, l’unica classe produttiva della società sono i lavoratori impiegati nell’agricoltura. [[17]] Gli artigiani, i lavoratori industriali, i commercianti e i capitalisti sono definiti classi non produttive. [[18]]

Si possono quindi indicare i due punti che distinguono le opinioni dei fisiocratici riguardo la fonte di valore e il lavoro produttivo da quelle dei mercantilisti e che ne sottolineano l’originalità: il primo è che non hanno ricercato la fonte del valore nell’ambito dello scambio ma nell’ambito della produzione, sebbene solo nella produzione agricola e nel lavoro agricolo a causa dell’influenza dei tempi.

Il secondo è che assumevano il valore solo come un prodotto concreto e tangibile, o valore d’uso.

 

Gli economisti classici e il lavoro

A seguito dell’impoverimento degli agricoltori e del rapido arricchimento dei fabbricanti, e dello sviluppo di officine e manifatture basate sul lavoro salariato, divenne più chiaro che la fonte dell’accumulazione di capitale e valore non si trova nel commercio ma nella produzione (e sempre più nella produzione industriale). Nel suo Ricerche sopra la natura e le cause della ricchezza delle nazioni, che fu pubblicato nel 1776 ed è considerato come l’opera che segnò la nascita dell’economia politica classica, Adam Smith definì il plusvalore come un valore che il lavoratore aggiunge alla merce. Egli faceva riferimento al principio che il valore è determinato dal tempo di lavoro speso nella produzione della merce. Ha chiarito che il profitto e la rendita, che sono forme concrete di plusvalore, sono il risultato del lavoro dell’operaio. Smith, che considerava il plusvalore come il prodotto della materializzazione del lavoro, ha stabilito una distinzione critica in termini economia politica: lavoro produttivo e improduttivo. Tuttavia, nonostante la sua scoperta rivoluzionaria, Smith non si sbarazzò del tutto dell’influenza della teoria fisiocratica. Egli dà due tipi di definizione di lavoro produttivo. La prima è la seguente: “C’è un genere di lavoro che aggiunge valore all’oggetto a cui viene applicato: ce n’è un altro che non produce questo effetto. Il primo genere, poiché produce un valore, può essere chiamato lavoro produttivo, il secondo lavoro improduttivo. Così il lavoro di un operaio manifatturiero aggiunge generalmente al valore della materia prima impiegata il valore del proprio sostentamento e del profitto del suo padrone. Il lavoro di un domestico, invece, non aggiunge valore a niente. […] Un uomo arricchisce impiegando un gran numero di operai manifatturieri; impoverisce mantenendo un gran numero di domestici”.[[19]]

Nella sua prima definizione del lavoro produttivo, Smith sottolineò una distinzione fondamentale: il lavoro che si scambia con il capitale (produttivo) e il lavoro che si scambia con il reddito (improduttivo). In conseguenza dell’attività lavorativa che produce merci, ricevendo salari da un capitalista, il capitale del capitalista aumenta. Tuttavia, la manodopera che percepisce il salario dallo stesso capitalista e svolge un lavoro domestico non si scambia con capitale. Ancora una volta, riceve il suo salario dal capitalista, ma in questo caso non per produrre merci per costui ed accrescere il suo capitale, ma in cambio del servizio personale riceve denaro dal suo reddito. Così il primo tipo di lavoro accresce il capitale del capitalista e crea un nuovo valore; il secondo tipo di lavoro riceve una quota del reddito del capitalista come pagamento in cambio del servizio personale ma non crea nuovo valore. Mentre il capitalista che amplia la sua attività e impiega più operai espande la propria fortuna, la persona che cura la sua casa e svolge più servizi riduce la sua ricchezza. Il nucleo fondamentale della definizione del lavoro produttivo di Smith è che il lavoro produttivo consente l’accumulazione diretta del capitale. [[20]]

Questa è la prima definizione di Smith. La seconda definizione è la seguente: “Ma il lavoro dell’operaio manifatturiero si fissa e si realizza in qualche oggetto particolare o merce vendibile che dura almeno per un certo periodo di tempo dopo che quel lavoro è terminato. È, in un certo senso, una determinata quantità di lavoro raccolta e accumulata per essere impiegata, se è necessario, in qualche altra occasione. Quell’oggetto, o, ciò che è lo stesso il prezzo di quell’oggetto, in seguito, se è necessario, può mettere in movimento una quantità di lavoro uguale a quella che l’aveva originariamente prodotto. Il lavoro del servitore domestico, al contrario, non si fissa o non si realizza in nessun oggetto particolare o merce vendibile. In genere i suoi servizi scompaiono nello stesso istante in cui vengono effettuati e raramente lasciano dietro di sé qualche traccia o qualche valore con cui in seguito sia possibile procurarsi un’uguale quantità di servizi.” [[21]] Pertanto, Smith definì il lavoro come produttivo quando si materializza in una merce concreta e tangibile, e quando ciò non avviene, come improduttivo. Non è errato il fatto che Smith include i domestici che scambiano il loro lavoro con il reddito nella categoria del lavoro improduttivo. Tuttavia, arrivando a una falsa generalizzazione partendo da un esempio corretto, isola ogni tipo di lavoro di servizio dalle relazioni capitaliste in cui si presenta e lo definisce come lavoro improduttivo per non essere materializzato in una merce tangibile. Smith criticò i fisiocratici, argomentando che il concreto sovrappiù che i fisiocratici vedevano come “il dono della natura” non esiste solo nell’agricoltura, ma anche in altri settori. Tuttavia, la sua seconda definizione suggerisce che Smith non riuscì a liberarsi dall’influenza della teoria fisiocratica, che identificava il plusvalore con un prodotto concreto (valore d’uso). [[22]] Uno dei motivi è che al tempo di Smith quasi non esisteva la sfera dei servizi. Ciò che distingue un violino dalla musica è che esiste un mercato dei violini, ma non esiste ancora un mercato della musica. [[23]] Tuttavia, quando lavorano per accrescere il capitale di un padrone, sia un inserviente che un musicista sono lavoratori produttivi.

Definito come l’apice dell’economia politica borghese, David Ricardo, abbracciò la concezione del lavoro produttivo di Smith completamente, mentre rompeva con lui in altri punti. Come Smith, definì il lavoro scambiato con il capitale come produttivo e il lavoro scambiato con reddito come improduttivo. [26]

Thomas Robert Malthus difese con forza la distinzione operata da Smith. Era necessario capire l’origine del plusvalore, separando così il lavoro che sostiene e sostituisce il capitale, dal lavoro che non ha quella qualità. [[24]] Malthus, tuttavia, non ritenendo corretto per alcune professioni che fornivano importanti servizi usare il termine di “lavoro improduttivo” secondo la definizione di Smith, usava invece l’espressione “servizi personali”. [28]

John Stuart Mill divise il consumo in produttivo e improduttivo, proprio come il lavoro. Come Smith, definì il lavoro che non si incorpora in un oggetto come lavoro improduttivo, e lo pose fuori dalla ricchezza sociale. [[25]]

Si possono quindi identificare tre caratteristiche fondamentali della concezione del lavoro produttivo nell’economia politica classica, che conservano la distinzione di Smith in generale. In primo luogo, essa considerava il plusvalore come risultato dell’attività nell’ambito della produzione, come i fisiocratici, e non nell’ambito della circolazione. Incluse il lavoro manifatturiero come parte del lavoro produttivo, superando la concezione dei fisiocratici che lo limitavano al lavoro agricolo. Rifiutava la definizione contraddittoria della teoria fisiocratica che considerava il plusvalore come un dono della natura e lo considerava il risultato del lavoro impiegato nella produzione della merce.

In secondo luogo, definendo il lavoro produttivo come lavoro che si scambia con il capitale e lavoro improduttivo come lavoro che si scambia con il reddito, fece un passo molto importante nell’analisi della politica dell’economia capitalista.

Terzo, nonostante questo successo, valutava il plusvalore nell’ambito di alcune forme concrete di lavoro (agricolo e manifatturiero) e dei risultati del lavoro. Definì il lavoro dei servizi, che non produce un bene concreto, come lavoro improduttivo senza prendere in considerazione le relazioni in cui esso partecipa o si scambia con il capitale, non superando pertanto completamente i limiti della concezione fisiocratica.

 

L’intervento di Marx

L’accumulazione di capitale, cioè la conversione del plusvalore appropriato (o investimento), è una necessità imprescindibile per il modo di produzione capitalistico e per i singoli capitalisti. Il capitale deve essere scambiato continuamente con una certa categoria di lavoro in grado di produrre plusvalore per il capitale. Pertanto, determinare la categoria di lavoro è particolarmente importante per comprendere il processo di accumulazione. [[26]]

Marx ha definito il lavoro produttivo nel senso più generale come segue: “[…] ciò che vuole produrre il capitale in quanto capitale (quindi il capitalista in quanto capitalista) non è né valore d’uso destinato immediatamente al consumo personale, né merce destinata ad essere prima trasformata in denaro e successivamente in valore d’uso. Il suo scopo è l’arricchimento, la valorizzazione del valore, l’accrescimento di questo, dunque la conservazione del valore esistente e la creazione di plusvalore. E questo prodotto specifico del processo di produzione capitalistico il capitale lo ottiene solo nello scambio col lavoro, il quale si chiama per questo lavoro produttivo.” [[27]]

Il plusvalore, che rappresenta il “prodotto specifico del processo produttivo capitalistico”, nasce esclusivamente dallo “scambio del capitale con il lavoro“, cioè dall’impiego della forza lavoro al servizio del capitale. Pertanto, questo prodotto originale è anche il risultato di una relazione unica, il rapporto di produzione tra il capitale e la forza lavoro.

Benché si tratti di una tipica forma di relazione economica nella produzione e in altri ambiti della vita sociale attuale, il dominio completo del rapporto tra capitale e il lavoro non si realizzò che alla fine del secolo XVIII, con l’invenzione delle macchine e la diffusione del sistema manifatturiero. [[28]] Per Marx, il capitalismo, a differenza dell’economia politica borghese, non è un ordine naturale ma una formazione storica, e questa formazione è in un costante stato di cambiamento/movimento. “Come tutti gli altri concetti dell’economia marxista, il concetto di ‘produttività’ ha un carattere storico e sociale” [33] Anche il lavoro produttivo va inteso tra i prodotti “storici e transitori, cioè relativi, non assoluti”. [[29]] Pertanto, quando si discute della questione del lavoro produttivo secondo Marx, si deve tener conto che alla produttività si fa riferimento solo nel contesto dei rapporti di produzione capitalistici e non in ogni altro tipo di produzione. Questo inquadramento storico è uno dei punti di partenza di Marx nella distinzione tra il lavoro produttivo in generale ed il lavoro produttivo per il capitalista.

In generale, il lavoro produttivo è esistito nel corso della storia. Ad esempio, la persona che confeziona maglioni in casa per la sua famiglia è generalmente produttiva. La maglia che produce ha un valore d’uso per i membri della famiglia. Ma questo maglione non ha nessuna funzione nell’accrescimento dei profitti del capitalista. In una manifattura tessile, se gli operai lavorano più a lungo e producono più maglioni, il capitalista si appropria di più plusvalore, ma più vengono prodotti maglioni in casa, più i figli li indossano, meno plusvalore viene prodotto. Perciò, sebbene il lavoro della persona che lavora a maglia in casa in generale è un lavoro produttivo non è produttivo dal punto di vista capitalistico. C’è una miriade di attività di questo genere nella vita sociale e ci imbattiamo in esse in ogni momento. Possiamo menzionare le attività lavorative che sono utili e abbastanza numerose come cucinare a casa, insegnare a un amico, acquistare cibo per i vicini, pulire la casa, trasportare mobili, ma esse non sono produttive per il capitalista. Poiché l’accumulazione del capitale nel capitalismo in generale non dipende dal lavoro produttivo ma dal lavoro produttivo per il capitalista, gli economisti politici borghesi e Marx si occuparono di questo tipo di lavoro produttivo, e in esso cercarono la fonte e gli appropriatori della ricchezza. [[30]]

Il lavoro produttivo è quello che produce plusvalore. Marx affrontò la questione di quale lavoro produce plusvalore in diversi passi, così come in alcune sezioni dei tre volumi de Il Capitale, e in Teorie sul plusvalore (che Marx considerava il quarto volume de Il Capitale), soprattutto nella polemica con Adam Smith e i fisiocratici. Dopo aver evidenziato la sua concezione basata sulla storicità del capitalismo e, quindi, del lavoro produttivo, possiamo passare ai particolari dell’analisi di Marx sul lavoro produttivo.

 

La produzione di merci

In primo luogo, come si vede nel caso del maglione confezionato in casa, l’attività lavorativa che non dà luogo ad una merce per il capitale non è un’attività produttiva, e la forza-lavoro occupata in questo ambito non è produttiva in senso capitalistico. [[31]] Possiamo citare le due forme più comuni. Le donne tradizionalmente definite come “casalinghe” a causa delle diverse forme di dominio capitalista patriarcale svolgono molte faccende domestiche durante il giorno, ma non producono merce. Pertanto, non sono manodopera produttiva per il capitale. Tuttavia, grazie al loro ruolo nella riproduzione della forza lavoro con i lavori domestici cui attendono, permettono al capitale di ridurre i costi della forza lavoro e quindi funzionano come una risorsa gratuita da cui traggono vantaggio i capitalisti.[37]

Ancora una volta, educazione, sanità e altri servizi pubblici che non hanno ancora acquisito completamente una forma di merce e che funzionano (non importa quanto a lungo) come servizi pubblici sono sfere non produttive dell’amministrazione statale. A meno che non si vendano, non si può parlare di produzione di merci nei “servizi pubblici”, e anche i lavoratori che vi sono impiegati rientrano nella categoria del lavoro improduttivo. Quanto più i servizi pubblici vengono sfruttati commercialmente tanto più si produce plusvalore in queste aree.

Ad esempio, gli operatori sanitari che lavorano in un ospedale pubblico (infermieri, medici, operatori sanitari, addetti alle pulizie, cuochi, ecc.) sono improduttivi in senso capitalistico. [[32]] Tuttavia, se gli stessi medici si dimettono e svolgono lo stesso lavoro in un ospedale privato, diventano lavoratori produttivi. Bisogna rammentare ancora che la produttività qui menzionata non si riferisce ad un beneficio sociale o alla natura di ciò che è prodotto. Il servizio sanitario che si offre sia negli ospedali pubblici che privati è il medesimo. Nell’ospedale privato, questo servizio assume la forma di una merce e i lavoratori prestano la loro opera per il capitalista del settore sanitario. Come risultato di questo lavoro, il capitalista si appropria del plusvalore prodotto dai lavoratori e quindi questi lavoratori sono produttivi.

Marx fornisce lo stesso esempio riguardo agli insegnanti: “Un maestro che fa lezione ad altri non è un lavoratore produttivo. Ma un maestro ingaggiato insieme ad altri come salariato, per valorizzare il denaro dell’imprenditore dell’istituzione che commercia in sapere, è un lavoratore produttivo.” [[33]] “La produzione capitalistica non è soltanto produzione di merce, è essenzialmente produzione di plusvalore. […] Se ci è permesso scegliere un esempio fuori della sfera della produzione materiale, un maestro di scuola è lavoratore produttivo se non si limita a lavorare le teste dei bambini, ma se si logora dal lavoro per arricchire l’imprenditore della scuola. Che questi abbia investito il suo denaro in una fabbrica d’istruzione invece che in una fabbrica di salsicce, non cambia nulla nella relazione”. [[34]]

 

La produzione basata sul lavoro salariato

In secondo luogo, i lavoratori che producono una merce ma non producono merce direttamente per il capitale non sono produttivi in senso capitalistico. Il contadino che possiede un piccolo podere può produrre prodotti agricoli senza impiegare alcun lavoratore. Il lavoratore provvede al proprio sostentamento con questa produzione e quindi non contribuisce direttamente all’accumulazione di capitale, poiché non produce plusvalore per il capitalista. Quindi non è un lavoratore produttivo. [[35]]

Esiste un gran numero di gruppi professionali che producono merci per conto proprio o contribuiscono alla distribuzione di merci e sono definiti “autonomi”. I dentisti, i medici, gli psicologi, i sanitari, gli ingegneri, gli architetti, gli sviluppatori di software, i sarti, i calzolai, gli idraulici, gli imbianchini, gli installatori o i meccanici sono lavoratori improduttivi, ovvero non sono produttivi quando lavorano direttamente “per conto proprio” invece che per un capitalista. Generano reddito per sé stessi. [[36]] Quando però questi lavoratori, che sono essenzialmente

piccolo borghesi, falliscono e si mettono a lavorare sotto il comando di un capitalista, producono plusvalore e diventano lavoratori produttivi.

Marx fornisce il seguente esempio: “Uno scrittore è un lavoratore produttivo, non in quanto produce delle idee, ma in quanto arricchisce l’editore che pubblica i suoi scritti, o in quanto è il lavoratore salariato di un capitalista. (…) Una cantante che vende il suo canto di propria iniziativa è una lavoratrice improduttiva. Ma la stessa cantante, ingaggiata da un imprenditore (entrepreneur) che la fa cantare per far denaro, è una lavoratrice produttiva; poiché essa produce capitale.” [[37]]

 

Lavoro salariato impiegato dal capitale

In terzo luogo, il lavoro produttivo è definito dall’attività della forza lavoro occupata per il capitale. A differenza del lavoro che si scambia con il reddito, qui il lavoro si scambia con il capitale. Cosa significa ciò? Mentre una parte della forza lavoro si consuma per il capitale, un’altra offre “servizi alla persona”. La lavoratrice impiegata come domestica in una casa è una lavoratrice improduttiva se riceve uno stipendio dal proprietario in cambio dei suoi servizi personali. In questo caso, lo scopo del proprietario non è realizzare un profitto, ma acquistare il servizio/merce “lavoro domestico”. Il salario della lavoratrice non è coperto da alcun capitale, ma dal reddito del padrone di casa. Di conseguenza, il proprietario non si arricchisce, mentre la sua casa viene pulita, i suoi vestiti vengono stirati, ecc. La sua ricchezza non aumenta all’aumentare del numero dei domestici che egli impiega; avrà una casa più pulita ma un reddito disponibile inferiore.

Se la stessa cameriera pulisce la stessa casa con un impiego alle dipendenze di una società di pulizia, questa volta non è pagata direttamente dal proprietario e dal suo reddito, ma dal capitale (crescente) dell’impresa di pulizie. L’azienda ottiene maggiori profitti assumendo più lavoratori di servizio. A differenza della prima condizione, la lavoratrice domestica entra in un rapporto di impiego con il capitalista, cioè con il capitale. Durante l’orario di lavoro, costei dapprima produce un valore pari al proprio salario, e poi un plusvalore per il capitalista, e quindi è una lavoratrice produttiva.

 

Lavoro impiegato nella produzione e nel trasporto

In quarto luogo, non tutto il lavoro scambiato con capitale (cioè, pagato dall’investitore capitalista) è produttivo. La riproduzione sociale ha quattro fasi: produzione, scambio, sicurezza sociale e consumo individuale. Il plusvalore si crea in queste fasi solo nel processo produttivo. I lavoratori e la mano d’opera impiegati nelle sfere della circolazione e, soprattutto, della sicurezza sociale a carico dello Stato, non producono un nuovo valore, piuttosto svolgono un ruolo nella ripartizione e ridistribuzione del valore prodotto. Ottengono il loro salario attraverso il plusvalore già prodotto.

Marx formula il movimento generale del capitale come segue:

D -> M -> Processo produttivo-> M ‘-> D’ (Denaro -> Merce -> Processo produttivo -> Merce ‘-> Denaro’)

Il capitalista acquista i mezzi di produzione e le materie prime necessarie per la produzione con il suo capitale monetario e compra la forza lavoro per un certo periodo di tempo. Quindi, il capitale monetario (D) si converte in capitale-merce (M). Ciò è, in essenza, comprare qualcosa per mezzo del denaro, cioè un semplice scambio di merci. Lo scambio di denaro e merce tra il venditore e il capitalista non produce alcun plusvalore. Si produce una nuova merce (M’) usando mezzi di produzione e materie prime con la forza lavoro che impiega il capitalista. La merce fabbricata è un prodotto diverso dalla materia prima nel processo produttivo. In questo processo, la forza lavoro consente il trasferimento del valore dei macchinari e materie prime al prodotto attraverso l’attività lavorativa, producendo un plusvalore (tempo di lavoro supplementare) di cui si appropria il capitalista, nonché il valore da pagare al lavoratore come salario (tempo di lavoro necessario). La merce prodotta (M’) contiene plusvalore. Il plusvalore è generato nel processo di produzione in cui le merci nelle mani del capitalista (mezzi di produzione, materia prima e forza lavoro) si trasformano in una merce nella forma di prodotto (M->M’). Come risultato, il capitalista ha un lotto di merci (M’) contenente un plusvalore, nonché il valore per coprire i costi di produzione. Vendendo la merce (M’->D’), il capitalista si appropria il valore che include il plusvalore e può iniziare il nuovo ciclo del capitale. Tuttavia, il fatto che il capitalista si è appropriato del plusvalore sotto forma di denaro (D’) vendendo la merce porta all’erronea convinzione che il plusvalore è il risultato di questa vendita. Infatti, proprio come il capitalista compra le materie prime e mezzi di produzione (D-M), la vendita delle merci è un semplice processo di scambio commerciale (M’-M’), che non crea plusvalore. Ha però una funzione essenziale: il plusvalore generato si realizza, cioè finisce nelle mani del capitalista sotto forma di denaro (D). [[38]]

Come ha sottolineato Marx, “I due processi della sua circolazione consistono nel suo trasformarsi dalla forma di merce in forma di denaro e dalla forma di denaro in forma di merce. […] Durante il suo tempo di circolazione, il capitale non opera come capitale produttivo e perciò non produce merce né plusvalore”. [[39]] Ciò che Marx intende per circolazione è il processo di trasformazione della merce in denaro, e lo distingue da altre attività che si considerano circolazione ma sono un’estensione del processo produttivo: “Il capitale per il  commercio di merci, dunque, – fatta astrazione  da tutte le funzioni eterogenee che vi possano essere connesse, come magazzinaggio, spedizione, trasporti, distribuzione, vendita al minuto, e considerato limitatamente  alla sua vera funzione di comperare per vendere  – non crea né valore né plusvalore, ma è unicamente il mezzo che permette la loro realizzazione e con ciò nello stesso tempo l’effettivo scambio delle merci, il loro passaggio da una  mano all’altra, il ricambio sociale.” [[40]]

Poiché il plusvalore non si crea nell’ambito della circolazione ma il capitale commerciale riceve una porzione del plusvalore ottenuto nel processo di produzione, lo stesso accade con i lavoratori che lavorano al servizio del capitalista commerciale: “Ma fra lui e l’operaio direttamente impiegato dal capitale industriale vi deve essere la medesima differenza che sussiste fra il capitale industriale ed il capitale commerciale e quindi fra il capitalista industriale ed il commerciante. Il commerciante […] non producendo né valore né plusvalore […] neppure i lavoratori commerciali da lui occupati nelle medesime funzioni possono produrre per lui del plusvalore immediato.” [[41]]

In questo quadro, quanti operano nella vendita (sfera della circolazione) di merci in forma di beni o servizi, ovvero i dipendenti che lavorano nei negozi, non sono produttivi. Lo stesso vale per gli impiegati del settore finanziario.

Quindi, secondo Marx, il lavoro produttivo comprende l’attività lavorativa dei lavoratori impiegati dal capitalista nell’industria, nella distribuzione-trasporto [[42]], nello stoccaggio e nei servizi connessi alla produzione. Variabili tecniche come la professione di questi lavoratori, il prodotto che creano, le condizioni del loro lavoro non hanno a che fare con la produttività di lavoro; la questione centrale è che sia stabilito il rapporto di produzione tra forza lavoro e capitale – che comprende lo sfruttamento. Dunque, come Marx esemplifica in diverse occasioni, l’operaio, la domestica, la cameriera, il cantante, l’insegnante, l’ingegnere, il medico, il minatore, l’accademico, l’autore, ecc. producono un plusvalore quando entrano in rapporti di produzione con il capitale. Secondo Marx: “La determinatezza materiale del lavoro, e quindi, del suo prodotto, in sé e per sé non ha niente a che fare con questa distinzione tra lavoro produttivo e lavoro improduttivo. Per esempio, i cuochi e i camerieri di un albergo sono lavoratori produttivi, in quanto il loro lavoro, per il proprietario dell’albergo, si trasforma in capitale. Le stesse persone, nella veste di domestici sono lavoratori improduttivi, in quanto il loro servizio non si trasforma per me in capitale, ma spendo in esso del reddito.” [[43]]

Come si ricava da tutti questi esempi, l’idea che Marx limitasse la produzione di valore o lavoro produttivo al solo lavoro industriale – che è un’opinione piuttosto comune – è un caso di travisamento di Marx. Questo argomento è frutto dell’economia politica borghese e fu oggetto di ampia critica da parte di Marx. La produzione di plusvalore e la produttività in questi termini non sono legati ad una merce fisica, bensì al rapporto di sfruttamento nel processo produttivo che costituisce la base del modo di produzione capitalistico, ed in questi termini è un prodotto dei rapporti sociali che recano la contraddizione di classe. Di conseguenza, dal punto di vista della storia del pensiero economico, si possono evidenziare tre caratteristiche principali della feconda teoria del lavoro di Marx:

Innanzitutto, Marx ha continuato la tradizione della dottrina fisiocratica e dell’economia politica borghese, e di conseguenza considerava il plusvalore come il risultato dell’attività lavorativa nell’ambito della produzione, non della circolazione, delle prestazioni di servizi o del consumo. In secondo luogo, ha accettato e mantenuto la distinzione fatta da Adam Smith e dall’economia politica borghese, che definiva il lavoro produttivo come il lavoro che si scambia con il capitale. In terzo luogo, ha preso le distanze dalla concezione che riduce il plusvalore ad una merce tangibile, ad un oggetto, e quindi al valore d’uso, che si manteneva in forme diverse nella dottrina fisiocratica e nell’economia politica borghese. Così la produzione di plusvalore ha trovato la spiegazione conseguente nel quadro della teoria del valore-lavoro, ha cessato di essere la merce tangibile prodotta in questo o quel settore, ed è stata discussa in termini di relazione storica in quanto rapporto di sfruttamento tra forza lavoro e capitale.

 

Conclusione 

La questione della sfera nella quale si crea il plusvalore è stata uno dei problemi più importanti dell’economia politica a partire dai suoi fondatori e ancor prima. Ciò perché dalla produzione e dall’appropriazione del plusvalore nelle società di classe dipende la base del sistema economico e la garanzia del benessere delle classi dominanti.

La teoria fisiocratica e l’economia classica hanno compiuto un passo fondamentale nell’analisi del capitalismo trasferendo l’analisi del plusvalore dalla circolazione al processo produttivo. Tuttavia, i fisiocratici limitarono il plusvalore, che consideravano un dono della natura, al lavoro agricolo e ad un prodotto materiale. D’altra parte, l’economia politica classica, in particolare Smith, definì la produzione di plusvalore come il lavoro che si scambia con il capitale superando la forma concreta del lavoro (lavoro agricolo), e fece un altro passo importante nell’analisi del capitalismo con questa definizione di lavoro produttivo. Ciò nonostante, Smith non superò del tutto l’influenza della concezione fisiocratica, introducendo una seconda definizione di lavoro produttivo, limitandolo al lavoro industriale, che produceva solo merci materiali/tangibili. Non riuscì a sviluppare una concezione che contemplasse e includesse lo sfruttamento capitalistico della produzione di servizi in rapido sviluppo nelle ultime fasi del capitalismo.

La teoria di Marx si fondò sul patrimonio storico della scienza dell’economia politica classica. Tuttavia, l’analisi di Marx sul capitalismo e la sua concezione di lavoro produttivo non può essere considerata unicamente come la liberazione dell’economia politica classica dalle contraddizioni della teoria del valore del lavoro. Liberandola dalle sue incongruenze, Marx sviluppò la teoria del plusvalore prendendo le mosse da questa base, trovando la sua conclusione logica. Tuttavia, non si tratta di un semplice completamento o conclusione. Si tratta di una rottura metodologica che pone al centro dell’analisi il risultato storico e l’integrazione/relazione con le sue contraddizioni e i suoi conflitti.

In questa cornice, Marx trattò il capitalismo e il lavoro produttivo per il capitalista non come elementi di un ordine naturale, ma come prodotto storico che corrispondeva ed era soggetto al cambiamento e alla trasformazione. Superò l’analisi unilaterale della teoria fisiocratica e dell’economia classica, che definiva il lavoro produttivo come lavoro agricolo o industriale che produce una merce materiale. Scoprì la qualità del lavoro che va oltre le forme concrete dei rapporti di produzione capitalistica e definì il plusvalore a partire dai rapporti di produzione, che sono il risultato dello scambio tra capitale e forza lavoro.

Il metodo dialettico di Marx e soprattutto la sua concezione di lavoro produttivo offrono una grande opportunità per capire gli sviluppi del mondo economico e politico odierno e le tendenze e gli orientamenti generali del capitalismo attuale.

Con la sua inevitabile spinta all’accumulazione e il suo carattere espansionistico, il capitale che penetra nelle aree che sono rimaste fuori dal mercato da centinaia di anni e le trasforma su base capitalista, fa sì che la classe salariata si amplia con la partecipazione di diversi gruppi professionali e strati sociali. Si amplia così la categoria del lavoro produttivo con l’apertura di nuove aree di produzione industriale, dei servizi e dell’informazione (legate all’industria o alla produzione di servizi), mentre anche la popolazione lavoratrice improduttiva aumenta con l’espansione di pubblicità, distribuzione, intermediazione finanziaria, compravendita immobiliare, ecc. La categoria del lavoro produttivo di Marx è ancora importante per comprendere l’attuale crisi di produttività, la caduta del tasso di profitto, l’aumento delle attività finanziarie, l’intensa pressione per la trasformazione in merci vendibili e la privatizzazione di servizi non commerciali, e altri sviluppi economici attuali anche grazie agli enormi progressi tecnologici degli ultimi 20 anni.

NOTE

[1] In questo periodo il dibattito sul lavoro produttivo era legato all’analisi di classe degli “strati ” sociali in crescita. I “neomarxisti” definivano la classe operaia come l’unica categoria produttiva. L’alta burocrazia statale e i lavoratori pubblici erano descritti come la nuova piccola borghesia, indistinguibile e improduttiva. Se a ciò si aggiungono gli impiegati e i laureati, che si contano a milioni, la più grande quota di occupazione nei paesi capitalistici sviluppati (tra il 70% e l’80%) è stata caratterizzata come la nuova e vecchia piccola borghesia. Così fu spacciata la definizione della società borghese come “società della classe media” come una cosa “di sinistra”. Da questa premessa gli eurocomunisti trassero il compito di assicurare l’alleanza tra la classe operaia (in ritirata) e le classi medie in espansione.

[2] Gencoglu, AY (2013) “Ticari Kapitalizmden Sanayi Kapitalizmine: Merkantilizm, Liberalizm ve Marksizm”, Toplum Bilimleri Dergisi (“Dal capitalismo commerciale al capitalismo industriale: mercantilismo, liberalismo e marxismo”, Rivista di Scienze Sociali) 7 (14): 79-94, p. 81. 3  I proprietari fondiari britannici e i re feudali, che si trovarono in difficoltà a causa della caduta dei valori fondiari, delle guerre e delle crisi economiche, dovettero più volte accendere ipoteche a favore dei mercanti. Per ulteriori approfondimenti, vedere M. Dobb, Problemi di storia del capitalismo, Editori Riuniti, pag. 206 e seguenti.

[3] Kazgan, G. (1993) İktisadi Düşünce veya Politik İktisadın Evrimi (Il pensiero economico o l’evoluzione dell’economia politica), Remzi Kitabevi, Istanbul, p. 29. 5  Karahanoğluları, Y. (2009) Marx’ın Değeri Ölçülebilir mi?: 1988-2006 Türkiye’si İçin Ampirik Bir İnceleme (È misurabile il valore di Marx?: An Empirical Review for 1988-2006 Turkey), Yordam Kitap, Istanbul, p. 3. 4.

[4] M. Dobb, Problemi di storia del capitalismo, Editori Riuniti, pag. 230.

[5] F. Engels, Anti-Dühring, Editori Riuniti, pag. 240-241

[6] K. Marx, Teorie sul plusvalore, Volume primo, Editori Riuniti, pag. 156

[7] K. Marx, Teorie sul plusvalore, Volume primo, Editori Riuniti, pag. 135

[8] Kazgan, İkti sadi Düşünce veya Politikİkti sadın Evrimi (Il pensiero economico o l’evoluzione dell’economia politica), p. 56

[9] La teoria fisiocratica determinava il valore della forza lavoro come una grandezza fissa/data per analizzare la produzione capitalistica e analizzare il plusvalore. Per questo motivo il salario minimo è stato il pernio della dottrina fisiocratica (K. Marx, Teoria sul plusvalore, Volume primo, Editori Riuniti, pag. 128-129)

[10] “L’analisi del capitale, entro l’orizzonte borghese, appartiene essenzialmente ai fisiocrati. È questo merito che fa di essi i veri iniziatori dell’economia politica moderna”. (K. Marx, Teorie sul plusvalore, Volume primo, Editori

Riuniti, pag. 127)

[11] M. Dobb, Problemi di storia del capitalismo, Editori Riuniti, pag. 219

[12] A differenza del valore di scambio, il valore d’uso è quello che indica l’utilità della merce in termini d’uso e si realizza solo durante il processo di consumo.

[13] K. Marx, Teorie sul plusvalore, Volume primo, Editori Riuniti, pag. 135

[14] P. Howel, (1975) “Ancora sul lavoro produttivo e improduttivo”, Revolutionary Communist, https://www.marxists.org/subject/economy/authors/howell/produnprod.htm, pag. 47, download: 10 marzo 2020.

[15] ARJ Turgot, (1898), Riflessioni sulla formazione e la distribuzione della ricchezza Rich, Macmillan, New York, p. 9

[16] K. Marx, Teorie sul plusvalore, Volume primo, Editori Riuniti, pag. 130

[17] Turanli, R. (2000) İkti sadi Düşünce Tarihi (Storia del pensiero economico), Bilim Teknik Yayınları, Istanbul, p. 59

[18] Kazgan, İkti sadi Düşünce veya Politikİkti sadın Evrimi (Il pensiero economico o l’evoluzione dell’economia politica) pag. 57

[19] A. Smith, Ricerche sopra la natura e le cause della ricchezza delle nazioni, pag. 357-358

[20] Hunt, EK (2005) Storia del pensiero economico, tradotto da M. Gunay, Dost Publications, Ankara, p. 94

[21] A. Smith, La ricchezza delle nazioni, p. 358

[22] Karahanogulları, Y. (2008) “Lavoro produttivo”, Baskaya, F. e A. Duck (der.), Dizionario di istituzioni e concetti di economia: un’introduzione critica, Yordam Kitap, Istanbul, 1257-1270, p. 1263

[23] Karakoç, O. (1990) “Sulla separazione tra lavoro produttivo e lavoro improduttivo: A. Smith e K. Marx”, Studio di seminario inedito, Istanbul, p. 7-8 26  Altok, M. (2011) “Una valutazione della distinzione tra lavoro produttivo e improduttivo: il “lavoro” di Adamo Smith o il “valore” di Karl Marx?”, CU Journal of Economic and Administrative Sciences, 12 (1): 107-127, p. 117

[24] Karakoç, O. (1990) “Sulla separazione tra lavoro produttivo e lavoro improduttivo: A. Smith e K. Marx”, Studio di seminario inedito, Istanbul, p. 7-8 28  Çaklı, S. (2006) “Distinzione del lavoro produttivo-lavoro improduttivo nella Scuola classica”, Abant Izzet Baysal Magazine Università delle Scienze Sociali, 12: 41-60, p. 55

[25] Mill, JS (1976) Principi di economia politica, Augtus M. Kelley, Fairfield, p. 47

[26] Yilmaz, G. (2006) “Il lavoro di servizio e la teoria marxista del valore”. Yilmaz, D., F. Akyuz, F. Ercan, KR Yilmaz,T. Toren, U. Akcay (der.), Understanding Capitalism: Makers Sing the Song-I in Dipnot Kitap, Ankara, p. 292-3

[27] K. Marx, Teorie sul plusvalore, Volume primo, Editori Riuniti, pag. 598.

[28] La produzione capitalistica dipende dal fatto che le masse di lavoratori che hanno i propri strumenti di produzione, come contadini o artigiani, diventano proletari con la sottrazione dei mezzi di produzione. Si basa sul fatto che il lavoratore che si è liberato dai suoi vincoli feudali presenta la sua forza lavoro come “libero lavoratore” al servizio del capitale che controlla i mezzi di produzione. Nella società feudale, dove quasi il 90% della popolazione era legato alla terra e al feudatario, i rapporti di produzione tra i lavoratori e il capitale erano piuttosto limitati. 33  Karakoc Rubin Transfer, Sulla separazione tra lavoro produttivo e lavoro improduttivo, p. 20

[29] K. Marx, Miseria della filosofia, Edizioni Rinascita, pag. 89

[30] K. Marx, Il Capitale, Libro 1°, Volume 2°, Editori Riuniti, pag. 222

[31] La tendenza del capitale e dei governi borghesi a trasformare in merci tutte le manifestazioni della vita sociale è in qualche modo legata a ciò. 37  È caratteristico il fatto che il capitale beneficia del lavoro gratuito delle donne casalinghe, riducendo i costi della forza lavoro e quindi aumentando i suoi profitti. Ma il capitale vuole che le donne entrino nel mercato come forza lavoro a basso costo, siano impegnate direttamente nel sistema di sfruttamento capitalistico con il metodo del lavoro flessibile, ritenendo insufficiente quel contributo essenziale e indiretto. Sono stati presi dei provvedimenti importanti al riguardo, come numerose disposizioni di legge.

[32] Oggi, con la partecipazione alla spesa, i fondi a rotazione, il partenariato pubblico-privato, gli ospedali cittadini del settore della sanità si trasformano in ospedali “pubblici” sempre più aperti al mercato. Man mano che ci avviciniamo a questa scala di trasformazione e di modello di capitale, i lavoratori improduttivi diventano lavoratori produttivi.

[33] K. Marx, Risultati del processo di produzione immediato, pag. 151

[34] K. Marx, Il Capitale, Libro 1°, Volume 2°, Editori Riuniti, pag. 222

[35] Per legare i piccoli contadini ai monopoli agricoli capitalisti sono stati sviluppati da tempo la “produzione per conto terzi” e le varie forme di contratto. Ciò può essere interpretato come proletarizzazione dei contadini e come processo di conversione in lavoro produttivo in senso capitalistico.

[36] Se accumulano questo reddito e lo convertono in nuovi investimenti e impiegano altri lavoratori, diventano capitalisti. Tuttavia, se non impiegano altri lavoratori, il denaro che possiedono non si converte in capitale, ma permane sotto la forma di reddito.

[37] Marx, Teorie sul plusvalore, Volume primo, Editori Riuniti, pag. 277

[38] Ad esempio, quando viene costruito un palazzo, sono compresi sia costi di produzione che plusvalore nel valore dell’edificio. Quando si vende un appartamento di questo palazzo, l’impresa di costruzioni realizza questo plusvalore e lo versa nella sua cassa. I proprietari di uno stesso appartamento possono cambiare dieci volte in un anno. In questo modo, l’ammontare commerciale viene moltiplicato per dieci. Tuttavia, questi cambiamenti di proprietari non creano alcun valore aggiuntivo nell’economia del paese, si tratta di un cambiamento di proprietario del valore creato esistente e non c’è aumento di valore in totale.

[39] K. Marx, Il Capitale, Libro 2°, Volume 1°, Editori Riuniti, pag. 130

[40] Marx, Il Capitale, Libro 3°, Volume 1°, Editori Riuniti, pag. 342

[41] K. Marx, Il Capitale, Libro 3°, Volume 1°, Editori Riuniti, pag. 354

[42] L “effetto” del cambiamento di luogo come parte del processo di produzione della merce.

[43] Marx, Teorie sul plusvalore, Volume primo, Editori Riuniti, pag. 278

 

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