Nel capitalismo non esiste il “giusto salario”

Nella assemblea annuale di Confindustria, il presidente di Confindustria Bonomi ha detto che “la nostra Costituzione ci obbliga a riconoscere al lavoratore un salario giusto” da ottenersi con la contrattazione.  Una posizione identica a quella espressa dal presidente del Cnel, dai vertici sindacali confederali e dal papa.

Da parte sua Elly Schlein, segretaria del PD ha affermato che i 9 euro lordi orari del salario minimo sono lo spartiacque dello sfruttamento (dunque, se fossero 9 euro e mezzo lo sfruttamento non ci sarebbe più).

Tutto ciò è solo la copertura ideologica dello sfruttamento in regime capitalistico. È il frutto dell’accordo tra “lorsignori” che non hanno passato un giorno in catena di montaggio e che per confondere le idee agli operai devono necessariamente gettare Marx alle ortiche.

Plusvalore e sfruttamento

È infatti solo nella teoria marxiana del plusvalore che i concetti di salario e profitto, quindi quello di sfruttamento, poggiano su una base razionale.

La ripetiamo per sommi capi. La teoria del plusvalore poggia su quella del valore.

Le merci hanno un prezzo. Su che cosa si fonda? I detrattori di Marx direbbero sul rapporto tra domanda ed offerta che avrebbe a sua volta a che fare con l’utilità e la “scarsità”.

L’utilità è ovvia. Già per Marx un bene inutile non si scambia  (valore d’uso e di scambio della merce). Presupponiamo quindi che possano essere prodotte in gran quantità per soddisfare il bisogno di chi può comprarle. Pomodori, mele, arance, sono spesso talmente abbondanti da non essere raccolte. Recentemente il “granchio blu” è così abbondante da essere una calamità per la pesca. Eppure tutti questi prodotti li troviamo al mercato a prezzi elevati.

Ci sono naturalmente anche prodotti “rari”, come certi minerali. Sono costosi perché ci vuole tempo e lavoro per ricercarli, estrarli, raffinarli. L’offerta dei beni è spesso soggetta alla speculazione, connessa con posizioni di monopolio. Ma un sistema economico integrato non può fondarsi sulla speculazione sui prezzi. Se tutti speculano siamo al punto di partenza.

Dove si fondano in questo caso gli scambi? La speculazione non può essere spiegata con la speculazione, così come non tutto ciò che possiede valore d’uso è merce, ossia un oggetto prodotto per lo scambio. Supponendo quindi che ad un prezzo troppo elevato possa entrare nel mercato un concorrente che propone la merce a prezzo inferiore si va verso una situazione di equilibrio e normalità, ed è questa “normalità” che va indagata.

In queste condizioni di incontro tra domanda ed offerta, un kg. di carne costa varie volte un kg. di mele.

Perché? Perché le merci sono prodotti diretti o indiretti del lavoro umano. Anche quando si considera che per produrle ci si avvale di materie prime (ed ausiliarie) e macchinari si deve mettere in conto che tali mezzi di produzione sono a loro volta prodotti del lavoro umano. Quando esistono più produttori che impiegano differenti quantità di lavoro ne va considerata la media.

Marx, come gli economisti classici su cui inizialmente si appoggia, indagando a fondo il rapporto tra prezzi e valori delle merci, arriva a concludere che una merce ha una grandezza di valore data dal lavoro socialmente necessario alla sua produzione.

“Socialmente necessario”, perché questa media considera il tempo necessario alla fabbricazione di una merce determinata, in condizioni di produzione medie, cioè un livello tecnico medio, un’abilità media e un’intensità di lavoro media. Questo tempo di lavoro corrisponde alle condizioni di produzione nelle quali è fabbricata la maggior parte delle merci di un determinato tipo.

Il plusvalore si fonda su questa teoria razionale una volta che si fanno intervenire i rapporti sociali di produzione, che del resto già sono evidenti quando si osserva che la produzione è un atto sociale.

Nelle condizioni capitalistiche il lavoro umano è erogato in gran parte dagli operai che si presentano sul mercato come una merce il cui valore d’uso consiste nella capacità di essere fonte di valore.

Questa merce particolare è la forza-lavoro (insieme delle facoltà fisiche e mentali di cui dispone l’essere umano e che mette in azione quando produce beni materiali).

La forza-lavoro degli operai viene acquistata dal capitalista a un determinato prezzo alla cui base sta il valore di questa merce. Il valore della forza-lavoro è pari al valore dei mezzi di sussistenza necessari al mantenimento dell’operaio e della sua famiglia.

Dunque l’operaio non viene pagato per tutta la quantità di lavoro da esso svolto, ma solo per una parte di esso.

Dell’altra parte, cioè del valore creato in aggiunta dall’operaio al valore della sua forza lavoro, se ne appropria gratuitamente il capitalista, sotto forma di plusvalore, che è il frutto del lavoro non pagato dell’operaio.

Il salario nasconde il rapporto di sfruttamento capitalistico, creando un’apparenza ingannevole per cui si crede che l’operaio è retribuito per tutto il lavoro fornito, mentre in realtà esso è solo il prezzo della sua forza-lavoro.

In altre parole: il salario nel capitalismo rappresenta il pagamento di una sola parte della giornata lavorativa. Perciò non potrà mai essere “giusto” o “equo”!

Complessivamente le merci scambiabili con il fondo salari sono, come somma di valore, minori di quella di tutte le merci prodotte, altrimenti il capitalista che assolda l’operaio non avrebbe alcun vantaggio, mentre invece deve ottenere il plusvalore che è lo scopo immediato della produzione capitalistica.

Il singolo operaio è quindi acquistato per la sua forza-lavoro, che vale poniamo, 2 ore di lavoro sociale (tempo di lavoro necessario). In cambio, messo in produzione, ne eroga, poniamo, 8 ore. Le 6 ore di differenza costituiscono il tempo di lavoro supplementare fonte del plusvalore che viene estorto all’operaio dal capitalista che lo sfrutta.

Così tanto? Assolutamente sì, dato lo sviluppo delle forze produttive.

Sappiamo anche che quanto più la società capitalista è sviluppata e complessa, tanto più ci sono altri capitalisti e ceti improduttivi che si avventano su questo plusvalore che il capitalista industriale è costretto a cedere: mercanti, banchieri, assicuratori e lo stato tramite la tassazione.

Di quanto plusvalore ciascuno di costoro se ne appropria dipende dalla struttura del sistema e dai loro rapporti di forza, quindi dal proseguimento dei rapporti sociali al di fuori dei luoghi di produzione.

Salario e lotta di classe

La contrattazione del salario tra la classe operaia e quella dei capitalisti, così come si verifica la suddivisione del plusvalore tra i capitalisti nelle tangibili figure di profitto, e in maniera ancora più netta, avviene sulla base dei rapporti di forza e non c’entra nulla con concetti come giustizia ed equità.

Nei rari momenti in cui  gli operai mettono in campo la loro forza (in Italia negli anni ’70 del secolo scorso, dopo l’”autunno caldo”) il salario può aumentare ed intaccare il profitto, costringendo l’intera società capitalista ad una nuova ridistribuzione del reddito tra le classi.  In teoria – ma solo in teoria – la classe operaia potrebbe riappropriarsi dell’intero plusvalore. Questo sarebbe il limite massimo, ipotetico e del tutto transitorio, del salario nel regime capitalistico.

Le richieste di aumenti del 16% in quattro anni recentemente espresse dai metalmeccanici nordamericani non sono perciò “esagerate” o campate in aria, ma appena sufficienti, considerando  il biennio trascorso di elevata inflazione.

Quasi sempre la tendenza è il tentativo opposto, messo in atto dai padroni, di abbassare i salari fino al limite della sussistenza dell’operaio ed anche meno, di aumentare l’orario di lavoro fino allo sfinimento, di “potenziare” le giornate lavorative intensificandone i ritmi e i carichi di lavoro, saturando al massimo la produzione.

Lo sfruttamento viene aumentato anche con l’uso di contratti anomali, agenzie interinali, appalti e subappalti “a cascata”.

Sui tempi lunghi, l’aumento del tasso di plusvalore – cioè del grado di sfruttamento dell’operaio da parte del capitalista – avviene non per via contrattuale, ma per via economica con l’aumento della produttività del lavoro per mezzo del rinnovo del macchinario (plusvalore relativo).

Con ciò la massa dei beni che si scambiano con il salario richiede meno tempo di lavoro, quindi si riduce il tempo di lavoro necessario e si accresce per questa via il plusvalore.

L’inflazione attuale conseguente alla pandemia, alla crisi agricola dovuta al clima impazzito, alla guerra in Ucraina ha abbassato ovunque i salari e fatto giustizia del mito che l’inflazione sia causata dagli aumenti salariali.

Quasi sempre (nel 99% dei casi, osserva Marx) la classe operaia è costretta a muoversi sulla difensiva e a lottare per recuperare la perdita del potere d’acquisto.

Non ha il potere e i mezzi dei padroni, non controlla né lo stato, né la moneta, né i mezzi di produzione, non ha nessuna leva economica.

Deve quindi contare essenzialmente sulla sua capacità di unirsi, di lottare, sulla propria forza organizzata.

Riferendosi al livello del salario Marx dice:

“La determinazione del suo livello reale viene decisa soltanto dalla lotta incessante tra capitale e lavoro; il capitalista cerca costantemente di ridurre i salari al loro limite fisico minimo … mentre l’operaio esercita costantemente una pressione in senso opposto. La cosa si riduce alla questione dei rapporti di forza” (Salario, prezzo e profitto,  capitolo 14).

I limiti politici della lotta salariale

Per i suddetti motivi la classe operaia si impegna quasi sempre, sul salario, sull’orario di lavoro, la sicurezza ed altro, in una lotta economica difensiva. Tale lotta non va tuttavia sminuita, specie nei periodi di riflusso del movimento operaio o di graduale ripresa della lotta di classe degli sfruttati, come quello attuale.

La borghesia, oltre agli strumenti economici ed alla pressione materiale (licenziamenti, scorpori, delocalizzazioni) mette in campo potenti strumenti ideologici e politici.

Nel campo ideologico un suo obiettivo permanente è quello di occultare Marx con la teoria dei fattori di produzione. Il prezzo di vendita delle merci prodotte remunererebbe tali fattori (lavoro, capitale, capacità imprenditoriale ed altro) aggiungendovi un profitto dall’origine misteriosa. I rapporti sociali spariscono, così come l’operaio che diviene un “collaboratore” remunerato con un salario “equo” o “giusto”.

Sul piano politico essa veicola la sua ideologia attraverso i partiti riformisti e reazionari, e tenendo a bada gli operai con sindacati collaborazionisti.

Le lotte economiche, in quanto fanno saltare questa ideologia e riscoprire la forza dell’unione e dell’organizzazione operaia, in quanto risvegliano le masse dal torpore, in quanto cozzano contro i limiti imposti dal capitalismo, hanno un’importanza che non deve essere trascurata. Esse suscitano anche, seppur temporaneamente e limitatamente, un istinto di classe. Le organizzazioni e i partiti comunisti le devono perciò seguire con grande attenzione, senza inchinarsi davanti ad esse, ma promuovendole, allargandole, mettendo in campo forze adeguate ad infondere nelle masse operaie la coscienza di classe e rivoluzionaria, per unire il movimento operaio al comunismo, e viceversa, per raccogliere forze di avanguardia.

La loro importanza va dunque correttamente valutata, non gonfiata e tantomeno assolutizzata. Esse possono contribuire al processo politico rivoluzionario, ma non si sostituiscono ad esso. Il passaggio tra l’economico e il politico è un passaggio dialettico, più facile – è vero – quando le lotte economiche si estendono e coinvolgono l’intera classe e non si concludono con accordi per i quali oggi non esistono margini economici.

Ma il passaggio alla coscienza di classe e quindi alla necessità della lotta per l’abolizione del sistema capitalistico non è automatico.

Lasciamo dunque la parola a Marx:

“ la classe operaia … non deve esagerare a se stessa il risultato finale dei questa lotta quotidiana. Non deve dimenticare che essa lotta contro gli effetti, ma non contro le cause di questi effetti …; che essa applica soltanto dei palliativi, ma non cura la malattia … essa deve comprendere che il sistema attuale … genera le condizioni materiali e le forme sociali necessarie alla ricostruzione economica della società. Invece della parola d’ordine conservatrice: ‘equo salario per un’equa giornata di lavoro’  gli operai devono scrivere sulla loro bandiera il motto rivoluzionario: ‘soppressione del sistema di lavoro salariato’ ”  (Ibidem).

Occorre per questo il partito di tipo leninista. Secondo Lenin, che realizza e sviluppa il pensiero di Marx nelle nuove condizioni della lotta di classe, senza il partito che nelle masse lavoratrici sfruttate porta la coscienza di classe rivoluzionaria esse arrivano al massimo ad una coscienza “tradeunionistica”, che non mette in discussione il sistema del lavoro salariato e le fa brancolare nel buio.

Perciò è indispensabile un autentico partito comunista che sia capace di mettersi alla testa del movimento operaio e sindacale, salvaguardando la sua autonomia dalla borghesia e indicando i suoi compiti politici e la sua meta finale.

Da Scintilla n. 138 – ottobre 2023

 

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