Un approccio comunista al movimento “open source”

Internet e i software sono ormai parte della nostra quotidianità, molti lavori ne fanno uso e alcuni di essi sono basati su questo settore. C’è tuttavia un particolare aspetto del mondo informatico, non  conosciuto da tutti, ma che è degno di nota.

Sul web non è raro imbattersi in programmi e progetti definiti open source. I programmi funzionano seguendo i codici scritti dal programmatore usando un linguaggio di programmazione; solitamente questo codice “sorgente” non è leggibile per tutti gli utenti ma è nascosto per motivi di copyright.

I programmi “open source”, invece, rendono pubblico il loro codice e permettono agli utenti di contribuire liberamente alla sua modifica, di proporre migliorie che possono essere applicate sia per uso personale del singolo sviluppatore, sia per condividerli liberamente con gli altri utenti. Uno dei principi cardine della filosofia “open source” è la trasparenza e la condivisione della conoscenza: tutti possono e sono invitati a contribuire per migliorare il programma, senza compenso ma solo per beneficiare sé stessi e la comunità.

Diversi progetti open source sono pure senza scopo diretto di lucro, eccone alcuni: Firefox come browser, LibreOffice ed OpenOffice come alternative a Microsoft Office, Audacity per modificare i file audio, GIMP per modificare e creare immagini, VLC Media Player per la riproduzione di file audio e video, ma ce ne sono tanti altri e ognuno pensato per svariati scopi.

Anche uno dei linguaggi di programmazione più in voga tra gli sviluppatori, Python, è open source e gestito da un’organizzazione senza scopo diretto di lucro. Lo stesso vale per il sistema operativo Linux e il sito Wikipedia, quest’ultimo noto ormai a tutti.

L’idea alla base di molti di questi progetti è interpretabile come un desiderio di avere un internet aperto e collaborativo, dove non è il profitto a fare da padrone e a decidere quali software verranno sviluppati e venduti, e come questo sviluppo procederà.

È la contraddizione fondamentale fra forze produttive, che si sviluppano in modo sempre più sociale, e rapporti di produzione basati sulla proprietà privata borghese, a manifestarsi in questo fenomeno; ma tale contraddizione non può essere risolta sulla base dei progetti open source, ma solo attraverso la rivoluzione sociale del proletariato.

Dunque, nonostante questo fenomeno esprima il fatto che le forze produttive non riescono più a stare nello stretto limite imposto dai rapporti capitalistici di produzione, è necessario non fraintenderlo, in quanto il tentativo di “collettivizzazione dei progetti informatici” non è da interpretare in chiave rivoluzionaria. Non sono attività volte alla lotta al capitale e per una società socialista, ma tentativi sporadici di migliorare le attuali condizioni del mondo informatico e frutto di una necessità, talvolta inconscia, a raggiungere questo tanto agognato internet libero.

Chiarito ciò, va detto che tra i lavoratori che dedicano il loro lavoro e lo offrono alla comunità ci sono proletari che possono diventare buoni compagni, una volta acquisita la coscienza di classe.

Ci sono sviluppatori sfruttati e stanchi di vedere il dominio dei giganti tecnologici su internet, che si spartiscono l’ormai completo controllo dei principali sistemi operativi, software, siti, compresi i mezzi di informazione e i social network. Criticano la UE che mette a rischio con le sue direttive i programmi open source.  Sono stufi di questa situazione, anche senza riconoscerne la causa di fondo. Ed è qui che viene in aiuto il marxismo-leninismo: il marcio del web che questi programmatori percepiscono proviene dai monopoli capitalistici che dominano il mercato del settore (Google, Microsoft, Apple, Meta, Amazon, Xiaomi, Alibaba, etc. che paradossalmente hanno potuto prosperare anche grazie ai software open source) e dalle loro istituzioni.

Purtroppo nelle attuali condizioni i progetti open source hanno una vita breve e/o difficile.

Infatti questi progetti, come è successo e succede tutt’ora con Wikipedia, sono prede della borghesia che grazie ai suoi mezzi può prenderne il possesso acquistando i brevetti (la proprietà borghese, anche quella intellettuale, è sempre espropriazione) e manipolarli per i propri interessi, a discapito della maggioranza della popolazione. Popolazione la quale, in diverse parti del mondo, vede un accesso alle tecnologie che noi usiamo quotidianamente addirittura come un sogno.

Inoltre essendo i codici di questi programmi completamente o quasi completamente liberi da ogni vincolo possono tranquillamente essere copiati dalle aziende commerciali che potranno appropriarsi così del lavoro svolto da questi programmatori per accrescere il proprio capitale.

È infatti di fondamentale importanza ricordare che pure internet è un prodotto della società capitalistica, ergo anch’esso è un terreno in cui si svolge la lotta di classe.

È ben documentata la manipolazione di internet per seguire gli interessi di questa o quella fazione borghese, soprattutto quella imperialista; interessi che possono essere perpetuati sia per mezzo dello Stato borghese ma ancora più spesso proprio dalle aziende stesse.

D’altro canto è noto il legame tra i monopoli e lo Stato borghese, e quindi è normale che anche i monopoli del settore informatico rientrino in questo legame (sappiamo di questo legame anche grazie alle ricerche di Julian Assange riguardo Google, di cui trovate un estratto in “Google Is Not What It Seems”, reperibile in inglese sul sito di WikiLeaks).

Gli eventi di manipolazione dei progetti open source da parte dei monopoli devono essere interpretati come prove inoppugnabili dell’impossibilità di avere un internet veramente libero nell’attuale società capitalistica.

È innegabile che le multinazionali hanno tutti gli strumenti che occorrono per annientare o rendere innocui questi progetti, anche se questi nascono con i migliori degli intenti.

Se vogliamo avere un internet libero allora dobbiamo conquistare una società libera, basata sulla proprietà collettiva e sulla conoscenza condivisa. E se vogliamo una società libera, allora la cosa giusta da fare è lottare per la rivoluzione il socialismo, prima tappa del comunismo. La questione fondamentale che va risolta è: quale classe possiede i mezzi di produzione e di scambio e quale classe ne è priva? La soluzione di tale questione determina la soluzione di tutte le altre questioni, compresa quella di internet.

Facciamo dunque appello agli informatici che credono tuttora in questi progetti open source e che bramano l’internet libero, che sentono questi progetti e queste lotte come proprie, di cominciare a munirsi dell’unico strumento che potrà realizzare a pieno l’internet che desiderano: il socialismo scientifico.

È questa la teoria e il metodo corretto che ci permettono di rendere questo strumento ciò che molti sviluppatori hanno sognato, quando hanno creato e contribuito a progetti open source. Pensare di poter realizzare quell’internet in altri modi è puro utopismo e non porterà ad altro che a sconfitte nel lungo periodo.

Vogliamo anche noi un internet libero, in cui vi sia piena libertà di condividere le opere di cultura e di ingegno.

Pensiamo anche noi che la cultura dovrebbe essere universale, polivalente, accessibile e gratuita e al servizio delle masse, e con essa dunque anche i codici dei software.

Crediamo anche noi nei progetti dove tutti possono e vogliono collaborare come meglio riescono per migliorarli senza che il profitto sia la legge che guida questo lavoro.

E infine comprendiamo ed empatizziamo con gli intenti degli sviluppatori che hanno investito molto del loro tempo, denaro ed energie in questa causa.

Proprio per questo dobbiamo unirci e realizzare questo obiettivo insieme.

Tecnologia, informatica e cultura a beneficio della classe operaia e delle masse popolari, non dei capitalisti!

Lottiamo insieme per la società collettivista, alternativa sicura all’imperialismo, forza parassitaria e reazionaria che frena lo sviluppo della società umana!

Da Scintilla n. 139 – novembre 2023

 

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