OBAMA VUOL FINIRE LO SPORCO LAVORO IN
AFGHANISTAN
«L'uomo del "cambiamento" non ha cambiato nulla»
Issam al Khazraji, un lavoratore di Baghdad
Dunque,
Obama ha parlato. Nella notte del «Giorno del ringraziamento», dagli schermi
televisivi dell'Accademia militare di West Point ha annunciato all'America e al
mondo che gli Stati Uniti invieranno in Afghanistan, nell'arco di sedici mesi, altri 30 mila militari per «vincere» una guerra che dura da otto anni, che è
già costata agli USA 815 morti e che in realtà è già perduta (anche se il
signor Obama si guarda bene dall'ammetterlo): una sporca guerra imperialista per il controllo di importanti zone
strategiche e di fonti energetiche indispensabili per la sopravvivenza del
capitalismo nordamericano ed europeo.
«Dopo
otto anni, in alcuni dei quali non abbiamo avuto le risorse né la strategia per
concluderlo, la mia intenzione è finire
questo lavoro», aveva dichiarato Barak Obama alcuni giorni or sono.
Occupare militarmente un paese con truppe USA e NATO, metterlo a ferro e fuoco
provocando massacri e vittime fra i civili, lui lo chiama «lavoro»: nell'ultimo di questi massacri - il raid di Kunduz del
settembre scorso ordinato dal comando tedesco ed effettuato da jet USA -
furono barbaramente uccisi 142 civili!
La
nuova escalation militare che porterà il
totale delle truppe USA a 100.000 uomini, decisa dopo quattro mesi di
consultazioni e nove riunioni del Consiglio di guerra (a cui partecipano il
Presidente, il Vicepresidente, il Segretario di Stato, il Ministro della
Difesa, il Capo di Stato Maggiore e l'ambasciatore USA all'ONU), porterà il
budget delle spese militari USA a 734 miliardi di dollari. Il New
York Times ha calcolato che ogni soldato in più costerà al bilancio dello
Stato un milione di dollari.
L'annuncio
datone dal Presidente è tanto più ripugnante in quanto il Presidente medesimo
si appresta a ritirare - il 10 dicembre prossimo a Oslo - il premio Nobel «per
la pace», conferitogli per i «suoi straordinari sforzi» volti a «rafforzare la
diplomazia internazionale e la cooperazione tra i popoli», «per un mondo senza armi nucleari».
Non
potrebbe esserci motivazione più falsa ed ipocrita. Barak Obama non ha dato alcun reale contributo al mantenimento della
pace mondiale. Al contrario:
- ha impiantato sette basi militari in
Colombia;
-
ha
riattivato la 4a flotta militare USA per far pressione sui governi
dell'America Latina che conducono una coerente politica antimperialista o che,
comunque, cercano di difendere le risorse dei loro paesi dai diktat finanziari
dei monopoli USA;
-
mantiene il criminoso blocco economico contro Cuba;
-
tiene
tuttora prigionieri i cinque patrioti cubani per la cui liberazione si sono
mobilitate le forze democratiche di tutto il mondo;
- ha appoggiato il golpe militare in
Honduras;
-
continua
a finanziare lo Stato di Israele e la sua infame politica antipalestinese;
-
chiederà,
come abbiamo detto più sopra, che sia approvato per il 2010 il più elevato bilancio militare della storia
degli Stati Uniti;
-
ed ha
chiaramente manifestato la sua intenzione che gli USA continuino a possedere il
più grande arsenale nucleare del mondo.
Del
resto, nel suo discorso al'ONU del 21 settembre, egli aveva già riaffermato con
forza il «ruolo-guida degli Stati Uniti» in tutti i problemi dinanzi a cui si trova il mondo attuale. E
nella settimana in cui gli fu conferito il premio Nobel, aveva dichiarato
dinanzi al Congresso degli Stati Uniti che non avrebbe ridotto il contingente
nordamericano in Afghanistan ma lo avrebbe aumentato.
Sono le decisioni di un uomo che è
parte integrante della classe dirigente nordamericana, di una classe che - oggi
come ieri - è espressione degli interessi fondamentali del capitalismo e
dell'imperialismo USA.
Nelle
elezioni presidenziali del 4 novembre 2008 avevano votato per Barak Obama 63
milioni e 700 000 elettori, il 66 per cento dei giovani, il 95 per cento degli
afro-americani e il 66 per cento dei latinos. Oggi la popolarità di Obama è
nettamente in declino nel proletariato nero e negli strati più poveri della
popolazione nordamericana. E il consenso alla sua politica è sceso, in
generale, al di sotto del 50 %.
Ma il quadro politico
degli Stati Uniti non conoscerà alcun
sostanziale cambiamento fino a quando la classe operaia americana, ancora subalterna all'egemonia
ideologica della borghesia dominante,
non conquisterà la sua effettiva indipendenza politica.
«Lunga
e difficile - scrivevamo nel nostro commento del 10 novembre 2008 alle elezioni
presidenziali USA - sarà la strada che il proletariato bianco e nero degli
Stati Uniti dovrà percorrere per conquistare, sotto la guida di nuove forze comuniste, la sua coscienza di classe
indipendente e rivoluzionaria, condizione indispensabile per riuscire ad
abbattere il dominio politico della classe capitalista ed imperialista
americana e instaurare in quel grande paese la propria dittatura di classe».
Anche
una graduale presa di coscienza del carattere imperialista della guerra afghana
e dei costi economici e umani che il
«nuovo Vietnam» comporta per il
popolo statunitense potrà contribuire a questa maturazione.
Quanto
all'esito di quella guerra, ribadiamo oggi quanto abbiamo scritto nel settembre
scorso:
«Si
disilludano gli imperialisti. Nessun
invasore è mai riuscito a prevalere in
Afghanistan. Nelle guerre afghane dell'Ottocento l'Impero britannico fu
sconfitto dagli abitanti di quelle regioni. E furono sconfitti, nel secolo
scorso, i socialimperialisti di Breznev.
Con la loro legittima resistenza, i popoli afghani riusciranno anche
questa volta a sconfiggere gli invasori della NATO».
Rilanciamo la lotta per il ritiro
immediato ed incondizionato delle truppe italiane dall’Afghanistan e dagli
altri paesi! Fuori l'Italia dall'Afghanistan! Via le basi militari USA e NATO
dal nostro territorio! Diminuire le spese militari per aumentare quelle
sociali!
Non pagheremo la vostra crisi e le
vostre guerre!
3 dicembre 2009 Piattaforma
Comunista