Dal multipolarismo alla piramide: una confusione infinita nel dibattito sull’imperialismo

Partito del Lavoro – EMEP (Turchia)

Dal multipolarismo alla piramide: una confusione infinita nel dibattito sull’imperialismo

Un tempo esisteva la tesi dell'”imperialismo collettivo“. È stata avanzata quando la “globalizzazione” era a pieno regime. Secondo questa tesi, tutti gli Stati imperialisti dominavano collettivamente gli altri Paesi. La guerra tra imperialisti era un ricordo del passato. In Germania, ad esempio, questa tesi era difesa da una sezione del Partito Comunista Tedesco (DKP), il cui portavoce era Leo Mayer. La base economica di questa tesi era il passaggio al capitalismo monopolistico “transnazionale“. Si sosteneva che, poiché la struttura della proprietà aveva acquisito un carattere “transnazionale“, erano emerse anche nuove formazioni “sovranazionali” a livello statale. In questo modo il “capitale transnazionale” metteva gli Stati nazionali l’uno contro l’altro per assicurarsi condizioni più favorevoli. Le contraddizioni interstatali non erano quindi assenti, ma l'”organizzazione sovranazionale del capitale transnazionale” impediva che queste contraddizioni assumessero dimensioni pericolose…

È difficile non lasciarsi tentare dal fascino della superficialità, dall’essere costantemente “confermati” dalle apparenze. Ma non ci soffermeremo sulla tesi dell'”imperialismo collettivo“, perché questa tesi è già stata confutata dalla vita. Tuttavia, la ricchezza della vita stessa porta all’emergere di nuove tipologie. Una di queste è, ad esempio, la tesi della sostituzione del “mondo unipolare” con un “mondo multipolare“. Ci soffermeremo prima su questo argomento e poi, utilizzando l’esempio del Partito Comunista di Grecia (KKE), cercheremo di concretizzare il fatto che la critica giustificata di ciò che è sbagliato non è garanzia di una risposta giusta.

Quanti poli abbiamo?

Nella discussione che analizzeremo, la questione si basa sulla metafora dei “poli“. Ad esempio, si pongono domande come “Il mondo capitalista di oggi è unipolare, bipolare, multipolare o non-polare? Quale di questi è migliore per i lavoratori e i popoli?“.

Nelle discussioni basate sulla polarità, si prende come asse il periodo successivo alla Seconda Guerra Mondiale e in genere si fa una classificazione come segue: bipolarismo tra il 1945-1990, unipolarismo tra il 1991-2008 e multipolarismo dal 2009[1]. Alcuni, tuttavia, considerano la situazione attuale come una transizione dall’unipolarismo al multipolarismo piuttosto che come un multipolarismo. Essi sostengono che l’egemonia statunitense è ancora straordinariamente dominante, che stati come la Cina e la Russia stanno cercando di rompere questo unipolarismo mentre gli Stati Uniti resistono e che l’instaurazione del multipolarismo sarebbe vantaggiosa per le classi lavoratrici e i popoli. Questo è ciò che Putin e Xi Jinping stanno propagandando giorno e notte!

Prima di tutto, è necessario rispondere alla seguente domanda: l’unipolarismo è possibile nel quadro dell’imperialismo? Sappiamo che il fenomeno dell’imperialismo richiede almeno due Stati imperialisti rivali, perché un monopolio non può eliminare la concorrenza di cui è il prodotto. Può limitare e sopprimere la concorrenza per un po’, ma non può distruggerla. Affinché questo o quell’imperialista possa eliminare tutti gli altri imperialisti, deve liquidare lo sviluppo ineguale del capitalismo e le relazioni materiali e le contraddizioni che rendono possibile questo sviluppo. In questo senso, la risposta alla domanda è chiara e l’unipolarismo non è possibile.

Tuttavia, può esistere un periodo storico molto particolare e, in quanto tale, la sua transitorietà è evidente fin dall’inizio. Ad esempio, il periodo successivo al 1989/1991, cioè i primi anni dopo il crollo dell’Unione Sovietica e del “blocco orientale“, è stato un periodo di questo tipo. Nell’equilibrio di forze di quel periodo, gli Stati Uniti potevano riempire il vuoto lasciato da questo crollo, e in effetti lo hanno fatto. Come si legge in un articolo di Foreign Affairs, la principale rivista di politica estera statunitense di quegli anni, era possibile un “momento unipolare“. Il suo autore, Charles Krauthammer, fece la seguente valutazione:

“Il mondo immediatamente successivo alla Guerra Fredda non è multipolare. È unipolare. Il centro del potere mondiale è la superpotenza incontrastata, gli Stati Uniti, affiancati dai loro alleati occidentali”. Tuttavia, nel sottotitolo successivo sente il bisogno di aggiungere: “Senza dubbio, il multipolarismo arriverà col tempo”[2].

Ai fini della nostra domanda, non importa se questo momento sia durato fino al 2008 o meno, come suggerisce la classificazione approssimativa di cui sopra. Ciò che conta è che il multipolarismo non è uno stato desiderato, ma una realtà del nostro tempo, e deve esserlo per sua stessa natura. Così, ad esempio, il confronto tra Stati Uniti e Cina fa parte della lotta per l’egemonia tra alcuni Stati imperialisti su scala mondiale.

Ma cosa succede se alcuni di questi poli non sono imperialisti? Ad esempio, se, come sostiene il DKP, tra di essi vi fosse una “potenza antimperialista” o addirittura una “potenza sulla via del socialismo“? Quando si identifica il fenomeno dell’imperialismo essenzialmente con gli Stati Uniti e non si considerano la Russia e la Cina come potenze imperialiste, è naturale che si guardi con favore a qualsiasi sviluppo che minacci o indebolisca gli Stati Uniti e i loro alleati. Soprattutto se, come il DKP, non si vede la Russia come una potenza imperialista, ma come uno dei Paesi “costretti a perseguire una politica estera antimperialista[3](!), di fronte all’aggressione degli imperialisti occidentali, è facile come bere un bicchier d’acqua essere “fiduciosi“! [4]

L’analisi è la seguente: da un lato, ci sono paesi con un chiaro carattere imperialista (Stati Uniti, Germania, Francia, Gran Bretagna, Giappone e le loro organizzazioni internazionali come la NATO e l’UE). Dall’altro lato: “Ci sono paesi capitalisti che spesso sono costretti dall’aggressione imperialista ad adottare una politica estera anti-imperialista. Questi includono, tra gli altri, il Brasile, il Sudafrica, i BRICS e l’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai[5] e infine la Cina come “potenza antimperialista sulla strada della costruzione del socialismo“![6]

Se si legge la situazione in questo modo, la conclusione non sorprende: “In questo contesto, quando parliamo della necessità di salutare la tendenza al “multipolarismo”, non abbiamo nulla a che fare con le illusioni. Non si tratta ancora di una fase in cui il socialismo passa di trionfo in trionfo. Ma è una fase che probabilmente aprirà la strada ad esso. Potrebbe essere una fase in cui il rapporto di forze tra imperialismo e antimperialismo è più equilibrato. E molti popoli extraeuropei cominciano a percepire chiaramente che questo è un progresso[7].

Il bello della faccenda è che queste analisi sono svolte per non chiamare “ogni cosa imperialismo” e di avere un punto di vista più distintivo![8] La cosa triste è la ristrettezza di vedute, la superficialità nella comprensione teorica di alcuni circoli che pretendono di agire a nome della sinistra e persino del marxismo-leninismo; inoltre, la valutazione dello scontro aperto, cioè dei preparativi bellici diretti dei grandi stati imperialisti visti da un’angolazione così cieca, così come i discorsi demagogici di imperialisti come la Cina e la Russia in questo processo intrapreso, sono persino “salutati” e resi occasione di “speranza“. Se si considera questo quadretto, non c’è nulla di strano nella circolazione di analisi sbagliate sull’imperialismo.

Certo, questo è chiaro: la crescita dei conflitti tra imperialisti e l’acuirsi delle contraddizioni tra di loro possono creare nuove opportunità e possibilità per la classe operaia e i popoli lavoratori. Tuttavia, per coloro che guardano alle questioni non a livello di Stati ma di classi e di lotte di classe, ciò che è essenziale è la necessità di un livello di organizzazione e di lotta che possa sfruttare queste possibilità e opportunità. Se la classe operaia non è organizzata e non ha un forte movimento di classe basato su tale organizzazione, se non ha una linea politica indipendente e un partito che la garantisca, queste opportunità saranno sfruttate non dalla classe operaia e dai popoli lavoratori, ma dalla borghesia monopolistica di questo o quel paese; inoltre, si trasformeranno in strumenti per far sì che i lavoratori e gli operai seguano gli interessi della borghesia monopolistica.

Pertanto, finché il suddetto equilibrio di rapporti di classe rimarrà invariato, il “multipolarismo” significherà in ultima analisi l’acuirsi delle contraddizioni inter-imperialiste assai più di oggi, l’emergere di nuove guerre per procura[9], il rafforzamento della reazione politica e del militarismo, la diffusione del veleno del nazionalismo, il trascinamento dei popoli in nuove catastrofi e così via. Non sono già queste le tendenze dominanti? Nelle condizioni date dai rapporti di forza fra le classe, non è ovvio che smascherare tutte le forze e le tendenze che si celano dietro la predicazione del “multipolarismo“, rivelare il volto interno della loro lotta e mettere in guardia i popoli è l’unica via rivoluzionaria? “Salutare” questa realtà interiorizzando il discorso di uno dei poli non è altro che un’eclissi della ragione causata dalla perdita della prospettiva di classe.

La piramide imperialista

Per il Partito Comunista di Grecia (KKE), ovviamente, non si può parlare di una simile eclissi della ragione. Al contrario, per il KKE il carattere imperialista della Cina e della Russia è abbastanza chiaro. Ad esempio, secondo il KKE, gli opportunisti in Grecia e in altri Paesi del mondo “sostengono che la restaurazione capitalista nei Paesi socialisti è migliore perché ha abolito la Guerra Fredda e il mondo è quindi diventato multipolare, cioè ha molti centri e nuove potenze“, “ma ‘dimenticano’ il fatto che questi nuovi ‘centri’ e ‘potenze’ si basano sullo sviluppo dei rapporti di produzione capitalistici, sul dominio dei monopoli nell’economia, cioè che siamo di fronte a nuove potenze imperialiste in ascesa“. Allo stesso modo, il KKE non ritiene corretta l’identificazione dell’imperialismo con gli Stati Uniti. Inoltre, critica molti approcci opportunisti e superficiali della destra al dibattito sull’imperialismo. Ad esempio, critica giustamente “la propaganda dell’imperialismo come qualcosa di diverso e separato dal capitalismo, come un concetto politico staccato dalla base economica del capitalismo“, e determina correttamente che molte analisi errate dell’imperialismo derivano da questo[10].

Ma, come è stato sottolineato, la critica giustificata di ciò che è sbagliato non è garanzia di una risposta giusta. E questa verità generale vale anche per il KKE. Difatti, nel definire la propria posizione in questi dibattiti, il KKE ha elaborato un concetto interessante, per il quale utilizza la “piramide imperialista” come metafora. La piramide, in un certo senso, riflette la struttura gerarchica delle relazioni dominanti nel sistema mondiale imperialista. In cima ci sono gli Stati imperialisti più potenti; questo potere diminuisce man mano che si scende verso il centro e la base della piramide. Con un’enfasi che può sembrare strana, il KKE richiama l’attenzione sul concetto di “sistema imperialista internazionale“. In effetti, la metafora della “piramide imperialista” viene utilizzata tra parentesi in diversi testi del KKE come spiegazione del “sistema imperialista internazionale“.

Ma perché questa enfasi sul “sistema imperialista internazionale“, mentre è chiaro e ovvio, di fronte ai fatti storici, che il capitalismo è un sistema che si sviluppa attraverso il mercato mondiale? Il motivo è che il KKE ritiene che in questo contesto sia emersa una nuova situazione. Una situazione talmente nuova che, a loro avviso, la metafora di Lenin della “catena” e di “un pugno di Stati imperialisti” non rispecchia più la realtà odierna.

Dobbiamo esaminare la questione un po’ più da vicino. Secondo il KKE, il “capitalismo greco“, pur avendo “forti dipendenze dagli Stati Uniti e dall’Unione Europea“, si trova “nella fase imperialista del suo sviluppo” e “occupa una posizione intermedia” all’interno del sistema imperialista internazionale (cioè al centro della piramide)[11]. Tuttavia, non solo la Grecia, ma tutti i Paesi capitalisti della piramide si trovano nella “fase imperialista” del loro sviluppo. Il loro potere può variare a seconda del livello della piramide in cui si trovano, ma sono tutti imperialisti in un modo o nell’altro!

Il KKE critica le argomentazioni secondo cui i paesi capitalisti, ad esempio la Grecia, sono “essenzialmente occupati dalla Germania” e che “il suo regime è neocoloniale“. Tali argomentazioni, infatti, escludono la borghesia monopolistica di quel paese dall’essere il bersaglio (critica corretta sotto un certo punto di vista) e ignorano il fatto che il capitalismo in quel paese è “nella fase imperialista del suo sviluppo“. Secondo il KKE, chi non vede questi fatti “identifica l’imperialismo con un numero molto ristretto di paesi, un pugno di paesi” e “considera tutti gli altri paesi come paesi dipendenti, oppressi, coloniali[12]. Eppure, oggi, non c’è solo dipendenza, ma anche “interdipendenza“.

Alla domanda su quale sviluppo abbia reso necessario il concetto di piramide, la risposta del KKE è essenzialmente la seguente: “Nell’ultimo decennio del XX secolo la situazione ha cominciato a cambiare. Due fattori, che si influenzano reciprocamente, ma con una loro relativa autonomia, ne sono alla base[13]. Uno è il cambiamento delle politiche economiche dopo la crisi del 1973, cioè l’abbandono del “neo-keynesismo” (seguito da privatizzazioni, restrizione dei diritti sociali, aumento delle esportazioni di capitali, ecc.) In secondo luogo, le “opportunità offerte all’imperialismo” dal crollo dell’URSS e del Blocco orientale (“restaurazione capitalista“); il lancio di “una nuova ondata di attacchi da parte del capitale che ha incontrato scarsa resistenza” e la “creazione di nuovi mercati nei paesi ex socialisti“. Questo sviluppo ha avuto delle conseguenze: “L’unità delle potenze leader nei confronti del socialismo cominciò a disfarsi“, “si aprì un nuovo ciclo di contraddizioni inter-imperialiste nella divisione dei nuovi mercati“, che portò a guerre nei Balcani, in Medio Oriente e in Nord Africa. “Alla fine del XX secolo, i centri imperialisti emersi dopo la guerra mondiale erano tre: […] UE, USA e Giappone. Oggi, il numero di centri imperialisti è aumentato e sono emerse nuove forme di alleanze, come l’alleanza orientata verso la Russia, l’alleanza di Shanghai, i BRICS, l’alleanza dei Paesi latino-americani ALBA, il MERCOSUR, ecc.

In conclusione: “Non sono solo quelli ai vertici a perseguire una linea politica imperialista, ma anche i Paesi ai livelli inferiori, persino quelli che dipendono dalle potenze più grandi in quanto potenze regionali e locali, perseguono tale linea. La Turchia, ad esempio, è una potenza di questo tipo nella nostra regione, così come Israele, gli Stati arabi e le potenze che sono strumentali alla conquista di nuovi territori da parte del capitale monopolistico in Africa, Asia e America Latina. Di conseguenza, ci troviamo di fronte al fenomeno della dipendenza e dell’interdipendenza[14].

Non c’è bisogno di mettere in discussione l’ovvio, cioè che tutti i paesi capitalisti fanno parte del sistema imperialista internazionale. Allo stesso modo, è altrettanto ovvio che l’equilibrio di potere tra i paesi capitalisti può differire e che esso può cambiare come risultato dello sviluppo ineguale. Ciò che critichiamo è la caratterizzazione di tutti i paesi all’interno di questo sistema come imperialisti. In altre parole, il problema è che la differenza tra i paesi capitalisti viene ridotta a una differenza quantitativa e viene trascurata la differenza qualitativa tra loro in termini del loro stadio di sviluppo e di posizione. E quindi le relazioni di dipendenza tra di loro vengono spiegate piuttosto come “interdipendenza“. Naturalmente, non meno importante è il fatto che, dal momento che si sostiene che tutti i paesi capitalisti si trovano nella fase imperialista, il fenomeno dei paesi dipendenti e dei popoli oppressi è scomparso assieme alle contraddizioni oggettive che li hanno portati all’esistenza.

Per motivi dichiarati e non dichiarati, negli ultimi decenni il volto dell’economia mondiale è cambiato, le quote di mercato mondiale dei paesi imperialisti occidentali, in particolare degli Stati Uniti, sono diminuite, un paese come la Cina è diventato nel frattempo una potenza imperialista; soprattutto nei “paesi sulla soglia” (cioè i paesi che non sono ancora diventati una potenza imperialista, ma che hanno smesso di essere i paesi capitalisti arretrati del passato), il capitalismo si sta sviluppando rapidamente; c’è stato un grande aumento dell’esportazione di capitali dai paesi imperialisti ai paesi capitalisti, specialmente durante il periodo della “globalizzazione“, e ciò ha stimolato una straordinaria crescita dell’accumulazione di capitale in quei paesi. D’altra parte si sta verificando una nuova fase di internazionalizzazione del processo produttivo, di rimodellamento e approfondimento della divisione del lavoro nell’economia mondiale capitalistica, ecc. Si tratta di sviluppi più o meno noti a chi segue l’economia mondiale e le sue relazioni[15]. Se è così, si può dire che, sebbene le borghesie di questi paesi abbiano ambizioni imperialiste per le loro regioni a causa dell’accumulazione di capitale, questi sviluppi da soli non fanno ancora della Grecia o della Turchia, ad esempio, uno stato/potenza imperialista. Eppure, il KKE obietta questo! Dice di farlo e lo ha fatto. Come?

L’argomentazione del KKE è la seguente. Innanzitutto, questi Paesi non sono colonie o semicolonie o vittime di forti Stati capitalisti, come comunemente si crede. In questi paesi ci sono dei monopoli, la borghesia monopolistica lavora per conto proprio e talvolta insieme agli stati al vertice, ed esporta capitali in vari paesi del mondo, soprattutto nelle proprie regioni. Ad esempio: “Coloro che parlano di sottomissione e occupazione non vedono l’esportazione di capitale dalla Grecia (che è una caratteristica del capitalismo nella sua fase imperialista) […] Il capitale viene esportato per investimenti produttivi in altri paesi e, naturalmente, nelle banche europee[16].

Citiamo da un altro testo che affronta lo stesso punto: “Il fatto è che l’accumulazione e la concentrazione del capitale ha portato per molti anni alla formazione e allo sviluppo dei monopoli, che costituiscono il nucleo del capitalismo nella sua fase imperialista […] È proprio questo sviluppo che costituisce la base dell’analisi del KKE nello sviluppo della sua strategia e della tattica che ne deriva. Il programma del partito approvato dal 19° Congresso del Partito sottolinea i seguenti punti: la borghesia greca ha inizialmente beneficiato del cambiamento di potere controrivoluzionario nei paesi balcanici e della loro adesione all’UE. La borghesia greca ha realizzato una significativa accumulazione di capitale e ha registrato una forte esportazione di capitale, che attraverso investimenti diretti ha contribuito al rafforzamento delle imprese e dei monopoli greci. […] Questo sviluppo, che esprime l’ulteriore maturazione dei presupposti materiali per il socialismo[17], non è limitato alla sola Grecia, ma riguarda l’insieme dei paesi capitalisti. Lo sviluppo del capitalismo monopolistico negli ultimi decenni lo conferma[18].

Intervenendo a un incontro internazionale a Cuba nel 2022, il membro del Politburo del KKE G. Marinos ha sottolineato che le cinque caratteristiche elencate da Lenin nel riassumere l’imperialismo non dovrebbero essere limitate ai paesi al vertice della piramide: “Queste caratteristiche non sono proprie solo degli stati al vertice della piramide imperialista, al contrario, sono olistiche, sono proprie di tutti gli stati, più o meno potenti, perché l’epoca monopolistica e reazionaria del capitalismo è un tutt’uno“.

Sembra che nella discussione sull’imperialismo si arrivi sempre allo stesso punto: alla confusione che si crea oggi nell’analizzare le caratteristiche dell’imperialismo individuate da Lenin…

L’approccio ai cinque punti di Lenin

Si è detto in precedenza che l’eclissi della ragione nel DKP e in alcuni circoli di sinistra non vale per il KKE. Tuttavia, sembra che i percorsi dei due partiti in qualche modo si sovrappongano nell’affrontare le caratteristiche dell’imperialismo espresse da Lenin nei suoi cinque punti. Mentre il DKP sostiene che Cina e Russia non sono imperialiste sulla base di questi punti, il KKE sostiene che tutti i paesi capitalisti sono imperialisti facendo riferimento agli stessi cinque punti! Va subito detto che ciò che rende possibile questa sovrapposizione è il positivismo che permea l’anima stessa della moderna tradizione revisionista.

In questo senso, la critica al DKP è essenzialmente valida per il KKE. La lettura positivista vede solo il dato di fatto nei cinque punti riassunti da Lenin, ovvero monopolio, capitale finanziario, esportazione di capitale, ecc. Tuttavia, guardando a questi punti, ciò che è altrettanto importante per la discussione sull’imperialismo è il contesto del dato di fatto, il suo impatto e ciò a cui porta. Ad esempio, ciò che è essenziale e decisivo non è l’emergere del monopolio in sé (il monopolio esisteva anche prima del capitalismo), ma il fatto che il monopolio che emerge in questa fase del capitalismo “svolge un ruolo decisivo nella vita economica“. Oppure, le unioni capitalistiche internazionali possono comparire anche nel periodo della libera concorrenza in questo o quel singolo investimento, ma ciò che è essenziale per l’imperialismo è che queste unioni siano in grado di “spartirsi il mondo tra di loro“. Allo stesso modo, nella storia del mondo, alcune potenze si sono spartite alcune regioni, ma ciò che è essenziale nell’imperialismo, come analizzato da Lenin, è la “divisione del mondo intero“, il suo “completamento” e la necessità di una “ridivisione“.

In breve, la novità dell’imperialismo è l’emergere di un rapporto di egemonia, predominio e potere basato sul superamento del periodo di libera concorrenza del capitalismo, in modo paradossale[19]. Il terreno su cui si basa questo rapporto di forza è, ovviamente, il fenomeno del monopolio. Tuttavia, i fenomeni possono essere compresi correttamente insieme alla loro formazione e ai loro attributi. Monopoli, sì, ma monopoli che oggi svolgono un ruolo decisivo nella vita economica su scala mondiale. Capitale finanziario, sì, ma un capitale finanziario corrispondente all’oligarchia finanziaria, ecc. L’importante non è la presenza o l’assenza di monopolio, capitale finanziario e capitale d’esportazione in questo o quel paese capitalista, ma la loro posizione, la quota di mercato, la capacità di investimento e di sanzione nei confronti delle grandi potenze imperialiste e dei monopoli in termini di rapporti di dominio. Pertanto, non si può determinare se un paese è imperialista o meno solo guardando a questa o quella caratteristica dell’imperialismo individuata da Lenin; al contrario, per questo, è necessario cercare la totalità di queste caratteristiche nel rapporto di dominio a cui corrispondono e vedere se questo rapporto materiale è dominante nella vita economica e politica e nelle relazioni estere di quel paese. Se non si fa questo, la totalità delle caratteristiche dell’imperialismo si trasforma in un’espressione vuota.

Inoltre, con questo approccio, c’è una differenza non trascurabile tra i paesi capitalisti imperialisti che si sono evoluti dal capitalismo libero e competitivo al capitalismo monopolistico come risultato delle leggi interne del suo sviluppo, e i paesi che hanno effettuato la transizione allo stadio imperialista in condizioni storiche “avanzate“, quando l’imperialismo dominava il mondo e la divisione del mondo da parte dei monopoli e degli stati imperialisti era già completata. Lo sviluppo del capitalismo nel secondo tipo di paesi avviene in condizioni in cui i primi dominano già nell’economia, nelle quote di mercato, nelle sfere di influenza e nella tecnologia. Non si sviluppano al di fuori dei monopoli che dominano su scala mondiale, ma accanto e spesso attraverso di essi. Solo a un certo punto del loro sviluppo, cioè dal momento in cui riescono a raggiungere un’accumulazione di capitale, una quota di mercato, un potere militare e un vantaggio/superiorità tecnologica che possono essere differenziati dai monopoli e dagli stati imperialisti che dominano il mondo, possono mostrarsi come una potenza imperialista.

In altre parole, essi possono emergere come potenza imperialista nella misura in cui riescono a danneggiare e superare i monopoli imperialisti che li contrastano a un certo livello e in un certo campo. Il cuore della questione è la rottura/superamento del monopolio/monopolizzazione esistente che domina in vari settori, campi e soggetti. Per un paese capitalista che non ha raggiunto questo livello di sviluppo, il fatto che la sua azienda in questo o quel settore sia un monopolio, abbia capitale finanziario o esporti capitale, non lo rende automaticamente imperialista. Pensare il contrario significa avvicinarsi alla teoria dell’imperialismo di Lenin con una concezione positivista, negare l’unità interna delle caratteristiche dell’imperialismo così come è emerso, dimenticare che lo sviluppo dei paesi capitalisti di oggi avviene nelle condizioni dell’epoca dell’imperialismo, e quindi astrarre la velocità e le forme del loro sviluppo dall’esistenza e dalle tendenze dell’imperialismo, in breve, non cogliere il punto.

Nell’Imperialismo, Lenin, citando l’economista tedesco Kestner sulle conseguenze dell’emergere dei cartelli, il quale diceva che i cartelli non solo realizzavano alti profitti rispetto l’industria non monopolista, ma hanno anche “acquistato verso quest’ultima un rapporto di padronanza ignoto al tempo della libera concorrenza“, proseguiva come segue: “Le parole sottolineate chiariscono l’essenza della cosa, che gli economisti borghesi ammettono così di rado e malvolentieri, e che gli odierni difensori dell’opportunismo, Karl Kautsky in testa, cercano con grande zelo di passare sotto silenzio e di mettere in disparte. Il rapporto di padronanza e la violenza ad esso collegata: ecco ciò che costituisce la caratteristica tipica della ‘recentissima fase di evoluzione del capitalismo’, ciò che doveva inevitabilmente scaturire, ed è infatti scaturito, dalla formazione degli onnipotenti monopoli economici[20].

Ecco perché, per Lenin, “l’imperialismo è capitalismo monopolistico” e mai capitalismo con monopoli! Ed è per questo motivo che gli economisti liberali oggi non negano l’esistenza dei monopoli, ma la loro abolizione della libera concorrenza! E per le stesse ragioni, lo sviluppo ineguale del capitalismo, derivante dalla concorrenza e dall’anarchia nella produzione capitalistica, acquisisce con l’imperialismo la caratteristica di uno sviluppo spasmodico. Le peculiarità dello sviluppo della Cina come potenza imperialista sono un esempio eclatante di quanto qui evidenziato[21].

Il punto di vista positivista, invece, ignora sia lo storico, sia la storicità della storico. Riduce l’analisi di Lenin sull’imperialismo a una semplice constatazione del fatto: ci sono i monopoli, c’è il capitale finanziario, c’è l’esportazione di capitale. Pertanto, molti paesi capitalisti possono sfuggire dicendo che si trovano nella “fase imperialista“! Innanzitutto, queste caratteristiche sono quelle dell’evoluzione del capitalismo libero e competitivo in capitalismo monopolistico. In questo senso, esprimono caratteristiche che differiscono, contraddicono e si differenziano dal punto di paragone, cioè dal capitalismo libero e competitivo. In secondo luogo, nelle condizioni del capitalismo mondiale, in cui l’imperialismo, il capitalismo monopolistico e quindi le sue caratteristiche e tendenze specifiche esistono da più di un secolo, l’emergere delle suddette caratteristiche in questo o quel paese capitalista non è solo uno sviluppo comprensibile, ma non è nemmeno contrario alle tendenze dell’imperialismo. Per queste ragioni, l’osservato sviluppo capitalistico non rende questi paesi direttamente imperialisti.

Perché? Perché i monopoli, il capitale finanziario, ecc. in questi paesi non si formano nelle condizioni di un capitalismo mondiale liberamente competitivo. Al contrario, i monopoli e il capitale finanziario di questi paesi si formano e cercano di operare nelle condizioni di una determinata economia mondiale in cui il potere economico e finanziario, i mercati mondiali, le sfere di influenza e le possibilità tecnologiche sono condivise dai grandi monopoli e stati imperialisti, in cui prevale un rapporto di forza concreto e specifico. Perché questo punto è importante? Perché i monopoli, ecc. in questi paesi non si formano in opposizione ai grandi monopoli imperialisti e del capitale finanziario; al contrario, salvo eccezioni, emergono e cercano di crescere in collaborazione con essi, appoggiandosi a loro come piccoli partner, a volte persino come loro estensioni.

Nei paesi i cui processi di accumulazione del capitale sono così condizionati e svantaggiati fin dall’inizio, non è possibile che questo o quel gruppo di capitale finanziario, questo o quel monopolio, anche su piccola scala, ottenga un vantaggio di mercato per sé? In un processo storico in cui il capitalismo si espande su scala mondiale, tali possibilità e opportunità eccezionali possono sorgere e di fatto sorgono. Tuttavia, le eccezioni confermano la regola. In breve, affrontare le cinque caratteristiche dell’imperialismo di Lenin astraendole dalle relazioni materiali date del capitalismo imperialista odierno, e in particolare dai rapporti di forza, non è altro che una lettura positivista della teoria dell’imperialismo.

 

Sud globale e interdipendenza

Indubbiamente, negli ultimi 40 anni, il capitalismo si è sviluppato su scala mondiale, soprattutto nel periodo del boom della “globalizzazione”, quando cioè il capitale finanziario occidentale, inebriato dal trionfalismo della svolta post 1989/91, non ha lasciato intatto nessun mercato e ha spostato i suoi processi produttivi in paesi stranieri, soprattutto in quelli “in via di sviluppo“. Questa fenomenale diffusione del capitalismo e delle relazioni capitalistiche in un periodo di tempo relativamente breve ha avuto effetti molteplici sia su questi paesi che sull’economia mondiale. Ad esempio, vale la pena ricordare che, insieme allo sviluppo capitalistico nei paesi non imperialisti, si è verificato un livello significativo di industrializzazione e di accumulazione di capitale. A seconda del livello di accumulazione, la borghesia monopolistica di questi paesi, come è noto, si rivolge all’esportazione di capitali, soprattutto nei paesi vicini, effettua investimenti concentrati in questo o quel settore e si trova di fronte a opportunità di espansione della propria quota di mercato. Secondo le parole del presidente del Consiglio di Amministrazione del TÜSİAD, l’organizzazione dei grandi capitalisti turchi, “in tutto il mondo le catene di approvvigionamento stanno cambiando, i centri di produzione si stanno spostando. Ci sono opportunità molto importanti per le economie che sanno leggere correttamente questo processo[22]. Inoltre, l’emergere di una nuova potenza imperialista come la Cina aumenta le possibilità delle borghesie monopolistiche di questi paesi, che possono acquisire una forza contrattuale che prima non avevano, soprattutto nei confronti dei monopoli occidentali.

Da qualche tempo, infatti, i “paesi sull’orlo del baratro“, ossia Brasile, India, Messico, Sudafrica (la Turchia è uno di questi Paesi con un proprio contesto specifico), sono in grado di prendere decisioni più sicure nel loro confronto con le grandi potenze, soprattutto nei confronti degli imperialisti occidentali, e per il momento sono in grado di trarre vantaggio dall’acuirsi delle contraddizioni tra i principali Paesi imperialisti. L’India è un esempio concreto delle crescenti possibilità di cooperazione economica e politica. L’India è la sesta economia mondiale. Nelle circostanze attuali, non si sente obbligata a seguire questa o quella grande potenza imperialista. Si sta già rivolgendo a varie cooperazioni economiche, politiche e militari speciali con ciascuna di esse.

Secondo il KKE, queste situazioni sono indicatrici del “fenomeno della dipendenza e dell’interdipendenza“. L'”interdipendenza” fondamentalmente non cambia se uno di questi paesi è membro di una particolare alleanza imperialista. L’appartenenza della Grecia alla NATO e all’UE, ad esempio, “limita la capacità della borghesia greca di agire in modo indipendente“, ma anche in questo caso l'”interdipendenza” non scompare, si trasforma solo in “relazioni di interdipendenza ineguali“(!)[23]. E ancora una volta leggiamo che l'”interdipendenza” si applica anche agli stati imperialisti classici: “Anche se uno o più Stati si trovano al vertice [della piramide] e sono all’avanguardia nell’internazionalizzazione capitalistica e nella ridivisione dei mercati, continuano a esistere in un regime di dipendenza reciproca con altri paesi. La Germania, ad esempio, può essere la prima potenza in Europa, ma l’esportazione dei suoi capitali e dei suoi prodotti industriali dipende dalla capacità dei paesi europei e della Cina di acquistarli[24].

Tralasciamo la dipendenza citata nell’ultima citazione. Oltre a essere oggetto di relazioni inter-imperialiste, si tratta di un tipo di “dipendenza” che esiste da quando esistono il mercato mondiale, l’economia e le relazioni di esportazione/importazione. È naturale che, all’attuale livello di interconnessione dell’economia mondiale, tali “dipendenze” reciproche siano aumentate. Ma anche in questo caso, esistono serie differenze di possibilità tra gli stati capitalisti e persino imperialisti nel superare gli svantaggi derivanti da questo tipo di “dipendenza” reciproca. Quando le contraddizioni inter-imperialiste romperanno le forme in cui sono esistite finora, quando subiranno una riformulazione corrispondente al nuovo livello di intensificazione delle contraddizioni (è in un certo senso quello che sta accadendo oggi!) e quando gli scontri aperti verranno alla ribalta, anche questa “dipendenza” reciproca diventerà irriconoscibile. La parola “de-risking“, l’obiettivo di ridurre l’interdipendenza in campi e settori strategici, di cui parlano in questi giorni gli imperialisti occidentali, indica che il cambiamento di cui abbiamo parlato è già iniziato come processo.

Ma per venire al punto principale, come spesso accade, il segreto è nella contraddizione! È proprio nell’affermazione contraddittoria di cui sopra (“rapporti di interdipendenza ineguali“) che si esprime il punto di importanza per il nostro tema e il nostro punto di obiezione. Se c’è un’interdipendenza disuguale, e se ci sono altri fattori che condizionano questa disuguaglianza, allora in questa relazione una parte è dipendente e l’altra no. La vera differenza nell'”interdipendenza” è proprio questa disuguaglianza. In questo senso, l’affermazione di “interdipendenza” serve anche a coprire la dipendenza di una parte.

Non andiamo oltre; la questione è dove collocare questi sviluppi. Ovviamente, il gruppo dei BRICS non può essere visto solo attraverso il prisma del “Sud globale“, poiché Cina e Russia non sono lì per beneficenza. L’impegno dei BRICS nei confronti di questi due imperialisti è evidente: tra le altre cose, rafforzare le loro braccia contro gli stati imperialisti rivali sostenendo i paesi del “Sud globale” in un’ampia gamma di settori, dalle materie prime alla geopolitica. Si possono fare molti esempi per dimostrare che la concorrenza in questo campo è aumentata negli ultimi anni. A questo proposito, è sufficiente osservare la composizione dei vertici e delle conferenze internazionali organizzate dai grandi stati imperialisti. Un altro punto notevole in questo contesto è che la Cina e la Russia sono in grado di sfruttare con successo le giustificate reazioni anticolonialiste contro gli stati imperialisti occidentali in questi paesi e di prestare particolare attenzione a creare l’immagine che non sono colonialisti come gli occidentali e di dimostrarlo nella pratica attraverso gli investimenti nelle infrastrutture o le opportunità offerte nel quadro del gruppo BRICS[25].

Va sottolineato che gli sviluppi sopra riassunti sono solo una faccia della medaglia. Dall’altro lato, c’è lo sviluppo e le posizioni conquistate dai paesi imperialisti occidentali negli ultimi 40 anni, ossia produrre con tassi di sfruttamento straordinari in paesi in cui la forza lavoro è a basso costo, ridurre il costo di riproduzione della forza lavoro nei propri paesi, imporre prezzi di monopolio, ottenere un livello di accumulazione di capitale incomparabile con i paesi capitalisti in via di sviluppo, rinnovare la propria posizione di monopolio nella tecnologia, ecc. Di conseguenza, la monopolizzazione, il dominio monopolistico, il livello di accumulazione, l’eccesso di capitale e l’ingrossamento del settore finanziario, ecc. nei paesi imperialisti classici hanno raggiunto dimensioni incomparabili rispetto ai tempi di Lenin. Oggi, ad esempio, il solo monopolio Apple ha un potere finanziario superiore al PIL di molti Paesi. Pertanto, pur richiamando l’attenzione sullo sviluppo capitalistico in vari paesi del mondo e sui monopoli e sul capitale finanziario che vi si sono formati, non bisogna trascurare il livello di centralizzazione e concentrazione del capitale nei paesi imperialisti e le nuove possibilità che questo offre loro.

In questo modo, si può notare che lo sviluppo nei paesi imperialisti ha un aspetto che rende relativo lo sviluppo nel “Sud globale” proprio per quanto riguarda il fenomeno del monopolio e i rapporti di dominio che su di esso sorgono. Certo, questi paesi hanno avuto uno sviluppo capitalistico significativo rispetto alle loro posizioni passate, ma la relatività di questo sarà compresa automaticamente quando si prenderanno come punto di paragone i paesi imperialisti classici e non le loro posizioni passate. In termini di criteri quali la posizione di monopolio in settori chiave e strategici, in particolare la tecnologia, il dominio del mercato, le sfere di influenza, l’accumulazione e le riserve di capitale, il potere sanzionatorio militare, finanziario e diplomatico, la differenza tra i paesi imperialisti classici e i paesi capitalisti che si sono sviluppati negli ultimi decenni non è fondamentalmente cambiata. La metafora della “piramide“, con la sua distinzione tra chi sta in alto e chi sta in basso, non sembra negare questa differenza, ma definendoli tutti imperialisti si trasforma questa differenza in una differenza puramente quantitativa tra paesi qualitativamente identici. Tuttavia, nella vita reale, cioè nelle dure condizioni di concorrenza del capitalismo mondiale, si sperimenta ogni giorno che questa differenza non è solo quantitativa. Al contrario, per usare l’espressione di Hegel, la quantità è anche qualità, vale a dire che proprio questa differenza quantitativa crea una differenza qualitativa in termini di imposizione del rapporto di dominio ed egemonia, che è la natura del monopolio[26].

Non bisogna dimenticare che il quadro attuale dei rapporti di forza e della distribuzione dell’economia mondiale, molto più interconnesso di ieri, non sarà permanente. Così come la previsione che “non ci saranno più guerre”, fatta sulla base di questa situazione di interconnessione, si è rivelata vana, allo stesso modo non si deve pensare che le opportunità e le possibilità di sviluppo offerte oggi da questa situazione rimarranno sempre le stesse. Sì, le quote di mercato dei paesi imperialisti classici non stanno aumentando come prima. Al contrario, stanno mostrando segni di declino in vari settori. La loro precedente posizione nell’economia mondiale comincia a vacillare. La loro capacità di limitare la concorrenza e di imporsi si sta indebolendo. Tuttavia, questa tendenza non può essere considerata unidirezionale o permanente. Al contrario, sta acuendo le contraddizioni dell’imperialismo provocando la resistenza di coloro che hanno perso terreno. Quando l’inasprimento arriverà a un certo punto, cioè quando il cambiamento dei rapporti di forza accelererà e raggiungerà uno stadio inaccettabile per questo o quel centro imperialista, il quadro generale che rende possibile l’attuale corso si trasformerà rapidamente e il linguaggio della forza e della violenza sarà parlato con tutta la sua distruttività.

Allora, al più tardi, sarà chiaro chi è un imperialista e chi no!

Partito del Lavoro (EMEP), Turchia

Pubblicato su “Unità e Lotta” n. 47 (novembre 2023), organo della Conferenza Internazionale di Partiti e organizzazioni Marxisti-Leninisti

NOTE

[1]             Goldberg, J. (2023) “Weltordnung zwischen Globalisierung und Nationalstaaten” (“L’ordine mondiale tra globalizzazione e Stati nazionali“), rivista Z, 134, 18-27, sf. 21

[2]             Citazione di Goldberg, ibidem, sf. 22 (articolo originale: Krauthammer, Charles, “The unipolar moment“, Foreign Affairs, gennaio 1990).

[3]             Nel suo discorso al “20° Incontro dei Partiti Comunisti e Operai”, Günter Pohl, Segretario per gli Affari Internazionali del DKP, ha sostenuto che la politica estera della Russia in Siria e Ucraina/Donbass è “oggettivamente anti-imperialista”! Vedi. http://solidnet.org/article/20-IMCWP-Written-Contribution-of-German-CP/

[4]             Tali speranze non sono limitate alla Germania, ma esistono anche in vari circoli di sinistra e persino marxisti in altri paesi.

[5]             Dal discorso del Presidente Patriarca del Partito Köbele al 25° Congresso del Partito, “In quale epoca viviamo?”. Si veda. Köbele, P. (2023) “In welcher Epoche leben wir?”, https://www.unsere-zeit.de/in-welcher-epoche-le- ben-wir-4778511/#more-4778511

[6]             Köbele, ibid.

[7]             [7] Köbele, ibid.

[8]            Qui, in un aspetto, c’è un riferimento al KKE in Grecia.

[9]           Gli sviluppi successivi al colpo di stato in Niger indicano che una nuova guerra per procura in Africa potrebbe scoppiare da un momento all’altro.

[10]           Vedi. Il discorso di Aleka Papariga, presidente del Partito: Papariga, A. (2013) “Sull’imperialismo – La piramide imperialista”, https://inter.kke.gr/de/articles/On-Imperialism-The-Imperialist-Pyramid/

[11]           Papariga, ibid. Il programma del KKE contiene quasi la stessa definizione.

[12]           Papariga, ibid.

[13]           Papariga, ibid.

[14]           Papariga, ibid.

[15]           Non menzioniamo fattori come l’impatto di questi sviluppi sulle classi e sulle loro lotte perché non sono oggetto di questo articolo.

[16]           Papariga, ibid.

[17]           Non ci soffermiamo sugli aspetti dell’analisi di ciò che sta accadendo in relazione alla fase e al percorso della rivoluzione, perché non sono oggetto di questo articolo.

[18]           KKE (t.y.) “Der Diskurs soll mit Argumenten und nicht mit Verleumdungen durchgeführt werden” (“Questa discussione dovrebbe essere portata avanti con argomenti e non con calunnie”), https://inter.kke.gr/en/articles/Der-Diskurs-soll-mit-Argumenten-und-nicht-mit-Verleumdungen-durchgefuehrt-werden/

[19]           Paradossale, perché il monopolio sorge dalla concorrenza, ma non può eliminarla.

[20]           Lenin, Imperialismo.

[21]           Ad esempio, non è un caso che gli Stati Uniti, nella loro competizione con la Cina, cerchino di mantenere il loro dominio nella tecnologia dei chip e, a tal fine, prestino particolare attenzione a contrattacchi e sanzioni. Mentre si scriveva questa nota, si è appreso che il Presidente degli Stati Uniti Joe Biden avrebbe emanato un nuovo decreto che vieta ai capitali statunitensi di investire in società cinesi (società operanti in Cina o controllate dal governo cinese) che operano nel settore di alcuni semiconduttori, dell’informatica quantistica e dell’intelligenza artificiale.

[22]           Bloomberg (2022) “Turan: Spostamento dei centri di produzione, opportunità significative disponibili”, https://www.bloomberght.com/turan-production-centres-shifting-onemli-firsatlar-mevcut-2315805

[23]           KKE, ibid.

[24]           Papariga, ibid.

[25]           Al momento in cui scriviamo, la dichiarazione del vertice russo-africano di San Pietroburgo, ospitato dalla Russia, secondo cui le parti si sarebbero opposte congiuntamente al “neocolonialismo” e avrebbero lavorato per il completamento del processo di decolonizzazione in Africa, oltre a compiere sforzi per compensare le ex colonie per le perdite subite per mano delle potenze coloniali, è solo un esempio recente di ciò.

[26]           Va da sé che la nostra distinzione quantitativa/qualitativa non significa che i paesi imperialisti non siano capitalisti. Infatti, se l’imperialismo è lo stadio più alto del capitalismo, la differenza tra i paesi capitalisti imperialisti rispetto ai paesi capitalisti ordinari deriva proprio dalla loro capacità, in quanto paesi che hanno raggiunto questo stadio più alto, di stabilire e imporre relazioni monopolistiche di dominio ed egemonia. La condizionalità dell’emergere e del cristallizzarsi di questa capacità con il raggiungimento dello stadio più alto del capitalismo indica che essa presenta una caratteristica non quantitativa ma qualitativa nel senso sopra indicato.

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