Il DEF annuncia altre mazzate antioperaie. Prepariamoci alla lotta!
Il Documento Economia e Finanza (DEF) è lo strumento governativo di programmazione della politica economica e finanziaria. Quello approvato il 9 aprile dal governo Meloni, si articola in diverse sezioni, in cui si evidenziano contraddizioni, paradossi, approssimazioni e omissioni. L’intento del documento è presentare un quadro economico e finanziario in cui la pesante situazione del reale e delle sue possibili evoluzioni è raffigurata in modo tale da piegarla alla demagogia del governo di estrema destra in carica.
Il quadro economico prevede per l’anno in corso e per i prossimi una crescita attorno all’1% (altre fonti la dimezzano), mettendola in linea con l’area Euro. Siamo di fronte a una stagnazione di lunga durata, in cui la produzione industriale continua a calare, rimanendo molto lontana dai livelli precedenti la crisi del 2008. Nel 2023 è stata inferiore di ben 2,5 punti percentuali all’anno precedente.
Ciò avviene nonostante, per stessa ammissione dei redattori, gli interventi di natura europea e statale (pro monopoli) del PNRR e del superbonus edilizio. Il primo contribuisce per almeno l’1% annuo di crescita. Il secondo, chiamato in causa per invocare la necessità di stringere i cordoni della spesa, ha portato ad una crescita del 4% del settore edile. Senza questi interventi, non prescritti dai neoliberisti al potere che fino a ieri negavano l’intervento dello Stato in economia, la situazione economica sarebbe di recessione.
Nel DEF si sostiene che la striminzita “crescita” odierna, in un quadro in cui l’export è in calo in quasi tutti i mercati internazionali, sarebbe sostenuto dalla ripresa dei redditi e dei consumi delle “famiglie”.
Da marxisti neghiamo ogni validità a questa tesi che nasconde lo spostamento del reddito dai salari ai profitti, con i primi che nella recente ondata inflazionistica hanno perso almeno un 10% del potere d’acquisto. Che ampi settori delle classi proprietarie si siano ritrovati con maggiori redditi è la scoperta dell’acqua calda. A ciò corrisponde la povertà dilagante all’altro polo della società.
Ciò premesso, il documento afferma che “la situazione patrimoniale delle famiglie è solida”, ma nel contempo ammette che la propensione al risparmio (ridottasi al 6,3%) raggiunge un minimo su base storica e che nel 2023 il credito al consumo è aumentato del 5%. Tradotto: il consumo ancora tiene perché molti pongono mano ai risparmi oppure s’indebitano, dato che il reddito è in netto calo.
La demagogia e le menzogne governative non si limitano alle “famiglie che consumano di più”, mentre la povertà dilaga. Si tira in ballo l’aumento degli occupati, persino in pianta stabile, e si prevede che i salari “crescano”, fornendo qua e la cifre di aumenti assoluti che in un contesto inflazionistico hanno un solo significato: la riduzione del monte salari reale.
Con gli occupati crescerebbero pure le ore lavorative, ma non in proporzione all’aumento del PIL, per cui il rapporto tra quest’ultimo e le prime – così si legge – segnerebbe un decremento dell’ 1,4% della “produttività”. Una castroneria che Meloni e Giorgetti si guardano bene dallo spiegare, altrimenti dovrebbero sollevare il velo che nasconde la realtà della pretesa “nuova occupazione”: lavoro precario, part-time, nero, sottopagato, che si accompagna ai licenziamenti di massa e agli “ammortizzatori sociali” determinati dalle crisi aziendali.
Mentre si fa sfoggio di mirabolanti statistiche, si dimentica di dire che la percentuale di disoccupazione permane la maggiore nella UE, così come tra i più bassi permane il tasso d’impiego, specialmente quello femminile.
Veniamo ai conti pubblici, dove le previsioni, soprattutto a causa dello scontro tra le potenze imperialiste per la ripartizione dei mercati, non possono che essere incerte, un fatto sul quale nel DEF si soprassiede temerariamente.
Tali conti, dopo quattro anni di allentamento dei vincoli su di essi posti causa pandemia e sconquasso inflazionistico, sono ora di nuovo sotto l’attento monitoraggio dell’UE che, fino all’entrata in vigore del nuovo Patto di stabilità e crescita entro quest’anno, si esprime con stringenti “raccomandazioni”, che si trasformeranno inevitabilmente in diktat.
Sappiamo che il Patto, con le sue controverse clausole, ha per obiettivo la stabilità del rapporto del debito pubblico e del deficit in relazione al PIL.
La realtà è ben altra. In Italia il debito naviga attorno al 140% e basta poco perché una crisi finanziaria, possibile visto il ricrearsi della bolla speculativa sui titoli azionari, faccia in breve tempo schizzare il tasso d’interesse sul rifinanziamento del debito a livelli tali da porlo fuori controllo, avvantaggiando potenze rivali dell’UE. Nelle previsioni del DEF la stabilizzazione del debito dovrebbe ottenersi per il 2026. Dunque per il prossimo periodo sarà ancora in crescita, in particolare – si sostiene – per effetto del superbonus che nel 2024 farà schizzare il deficit al 7,2% del PIL.
Perciò si prevede una riduzione della spesa pubblica al netto degli interessi dal 42,3% del PIL del 2023 al 40,6% del 2026 (la spesa aggiuntiva per interessi è del 4% circa).
Ma ciò origina nuove contraddizioni nell’asfittico capitalismo monopolistico italiano. Va infatti considerato che sulla spesa pubblica incide la spesa militare che è data in aumento (nel DEF ci si guarda bene dal dirlo) e che la massa di agevolazioni e sussidi alle “imprese”, ossia soprattutto ai monopoli, non sarà certo ridotta stante il carattere smaccatamente di classe di questo governo.
La politica di sovvenzionamento ai monopoli porterà all’inasprimento dei contrasti con l’UE, in particolare con paesi come la Germania e i paesi nordici che premeranno per “aggiustamenti strutturali”.
Quanto alle spese sociali, il nuovo Patto di stabilità – che nessun partito “sovranista” ha bocciato al Parlamento europeo – inciderà da subito per ben 18 miliardi di tagli o maggiori tasse, con stangate antipopolari che proseguiranno per anni.
Non è difficile infatti comprendere su quali voci di spesa si andrà a tagliare, in termini maggiori da quanto si evince dalla lettura dell’apposito allegato sulla spesa pubblica.
Secondo questi dati la sanità che nel 2021 era al 7% del PIL passerebbe al 6,4% del 2024, al 6,3% del 2025-26, al 6,2% del 2027.
La spesa per le pensioni (che pure sono soldi accantonati dai lavoratori) si manterrebbe sul 15,5% del PIL fino al 2027, in accordo con le previsioni a lungo termine della Ragioneria dello Stato fondata sull’attuazione della legge “lacrime e sangue” della Fornero.
Tagli pure all’istruzione e ad altri capitoli minori di spesa. Casse vuote per la spesa sociale, ma casse piene per i monopoli bellici. Per limitare la protesta popolare il governo potrebbe invertire la marcia sul fisco, ma ciò porterebbe all’assottigliamento della sua base elettorale e a minori investimenti di capitali, per cui andrà avanti con i tagli ai servizi pubblici.
Le righe precedenti mostrano ancora una volta l’assenza di margini riformisti. Nessuna prospettiva per i proletari, i lavoratori poveri, le donne del popolo, le giovani generazioni.
Il capitalismo è da tempo giunto al capolinea e la dialettica della storia chiede che sia abbattuto e sostituito con il socialismo.
Nel nostro paese le condizioni oggettive per la rivoluzione proletaria e il passaggio diretto al socialismo sono mature da un secolo. Ad essere immature sono le condizioni soggettive, la principale delle quali si chiama partito comunista.
Ciò impegna i comunisti e i proletari coscienti non su un programma di riforme, ma a cooperare per sviluppare un sistematico intervento nel proletariato, specie quello industriale, legando l’ideologia e la politica rivoluzionaria alle lotte quotidiane in difesa dell’occupazione, dei salari, delle pensioni, della sanità, dell’ambiente, etc.
Per fare ciò oggi occorre un’organizzazione saldamente basata sul marxismo-leninismo, che avanzi con la lotta e l’unità dei rivoluzionari proletari verso l’obiettivo del Partito.
Da Scintilla n. 145 – maggio 2024
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