“Zeri i Popullit”, La teoria e la pratica della rivoluzione

Editoriale pubblicato il 7 luglio 1977 da «Zëri i Popullit», organo del Partito del Lavoro d’Albania
INTRODUZIONE
Poniamo a disposizione dei comunisti e dei proletari avanzati del nostro paese questo storico articolo di difficile reperimento, da noi scannerizzato. La nostra organizzazione, così come la Conferenza Internazionale di Partiti e Organizzazioni Marxisti-Leninisti (CIPOML) di cui siamo parte integrante, sono eredi e continuatrici degli insegnamenti del compagno Enver Hoxha, riflessi in questo articolo, il quale fece compiere un salto di qualità alla lotta antirevisionista, orientando correttamente i partiti autenticamente comunisti. Per la precisione, esso rappresenta la difesa dei principi leninisti nella lotta per il socialismo e all’imperialismo, per la liberazione nazionale e sociale. Lo scritto rappresentò la prima manifestazione aperta dei contrasti sino-albanesi e dell’incipiente rottura: in esso si fa riferimento invero alla sola Albania come paese appartenente al campo socialista e viene definita come antimarxista e antileninista l’elaborazione «terzomondista» cinese. Prima di allora, contrariamente a quanto falsamente affermato dai maoisti e da qualche storico borghese, visioni confliggenti e diatribe erano già desumibili dalla non adozione da parte albanese di alcun «apporto» maoista[1] e dalla lettera di protesta del CC del PLA del ‘71 contro la messa in programma della visita di Nixon in Cina svoltasi nel ‘72, poiché la RPS d’Albania era tutt’altro che la «longa manus» cinese nell’Adriatico e l’anno successivo avrebbe denunciato pubblicamente gli atti perfidi e ostili, le deviazioni ideologiche e la linea controrivoluzionaria della direzione cinese, con la nota lettera del CC del PLA al CC del PCC.
Per agevolare e rendere più comprensibile la lettura, specie per le giovani generazioni, è d’uopo contestualizzare le argomentazioni alla luce dei cambiamenti e degli eventi verificatisi in quegli anni.
Nella seconda metà degli anni ‘70 si verificarono importanti trasformazioni dal punto di vista delle relazioni e degli equilibri internazionali, riguardanti tanto i rapporti tra i vari imperialismi che tra gli imperialismi e i paesi dipendenti. Riguardo ai rapporti e agli equilibri conflittuali tra imperialismi, sono da segnalare: la cessazione della convertibilità tra dollaro e oro a seguito della crisi di sovrapproduzione del 1969-70 che si sviluppò negli USA, la crisi di prestigio degli Stati Uniti d’America dopo lo scandalo Watergate, la disfatta in Vietnam, l’acuirsi di contraddizioni non ancora esplose del tutto nemmeno attualmente entro il blocco occidentale con l’emersione del Giappone e con la prosecuzione dell’integrazione europea in termini qualitativi e quantitativi, con corollario l’adozione di misure protezionistiche. Dal canto suo l’Unione Sovietica, per mezzo della coesistenza pacifica kruscioviana, alla promozione della via parlamentare al socialismo e alla degenerazione capitalista attraversava un ulteriore processo di distensione con l’Europa occidentale e il Nord America. Il Cancelliere tedesco occidentale Brandt abbandonò la Dottrina Hallstein a favore dell’Ostpolitik che consentì il riconoscimento e l’instaurazione di relazioni tra le due germanie ed il riconoscimento dell’Oder-Neisse da parte tedescoccidentale come confine tra Germania e Polonia, successivamente gli Accordi di Helsinki (il cui motto era «combattiamoci pure, ma non in Europa, facciamoci la guerra per interposti popoli in altri continenti»), firmata da USA, Canada e dagli Stati europei, ma non dall’Albania, riconoscevano la sfera d’influenza sovietica nell’Europa orientale. L’URSS pur perdendo influenza nel movimento comunista, anche revisionista, soprattutto in occidente, otteneva successi diplomatici, suggellava i suoi possedimenti acquistando legittimazione dai suoi rivali.
I rapporti tra imperialismi e paesi dipendenti subivano altrettante trasformazioni. La lotta anticolonialista riportò importanti successi, fra tutti lo sgretolamento del colonialismo portoghese. Molti paesi di nuova indipendenza caddero presto nel giogo della politica estera di carattere socialimperialista dell’URSS, a cui si unirono vari governi golpisti, specie del Corno d’Africa. L’Indocina vinse stoicamente l’annosa lotta di liberazione nazionale, decretando una delle più grandi sconfitte della criminale superpotenza statunitense. Il «gruppo dei 77», di fronte allo strapotere delle potenze capitalistiche occidentali nel commercio internazionale, lottava per un «nuovo ordine economico internazionale». Furono riportate importanti rinegoziazioni nel rapporto di sudditanza con i paesi imperialisti, rese possibili dai paesi raggruppatisi nell’OPEC i quali, con nazionalizzazioni e aumenti vertiginosi del prezzo del petrolio, diedero inizio ad una spirale che causò l’aumento del prezzo delle altre materie prime, a vantaggio dei paesi dipendenti esportatori. Ciò fu l’innesco della profonda crisi del 1973-74, in cui si intrecciarono la crisi ciclica da sovrapproduzione e le crisi strutturali, che colpì duramente i principali paesi capitalistici. Il «nuovo ordine economico internazionale» ebbe vita breve e fu contenuto dalle trattative dei paesi imperialisti europei coi paesi dipendenti lanciando loro qualche briciola, mentre dalla fine degli anni ‘70, col diffondersi del neoliberismo, si sarebbe assistito ad una nuova offensiva imperialista. Dunque, malgrado fosse economicamente stagnante e i suoi satelliti ed essa stessa si indebitassero massicciamente con l’Occidente, l’URSS revisionista era ancora in fase d’ascesa nello scacchiere internazionale, guadagnando posizioni in Africa e in Asia, mentre il campo occidentale, sebbene economicamente più avanzato e con maggiore egemonia sul globo, era in declino.
Quali conclusioni trassero i dirigenti cinesi da questa situazione? Essi elaborarono la famigerata «teoria dei tre mondi», le cui fonti primarie, oltre che nella prassi cinese, sono rilevabili dalla conversazione tra Mao ed il presidente dello Zambia, Kaunda, e dal discorso di Deng Xiaoping alla VIª Sessione Speciale dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, entrambe del 1974. Questa teoria era utile alla strategia e alla tattica della direzione cinese che accantonava la via della rivoluzione per entrare negli ingranaggi del gioco politico delle due superpotenze. Essa vedeva il mondo non sulla base degli interessi di classe e della lotta di classe, ma del livello di sviluppo economico dei paesi; sosteneva l’affrancamento del «secondo mondo», composto da paesi imperialisti e dai satelliti sovietici dell’Europa dell’est, anche benedicendo, come dimostra il colloquio tra Mao e Kissinger del ‘75, l’integrazione europea. Allo stesso tempo, reputava i paesi del terzo mondo, senza compiere differenze tra i vari governi e le classi sociali che rappresentavano, assertori di un «nuovo ordine economico internazionale» e «forza motrice rivoluzionaria che fa girare la ruota della storia mondiale» (dal discorso di Deng Xiaoping). Le altre contraddizioni fondamentali, quelle tra capitalismo e socialismo, tra capitale e lavoro, tra nazioni e popoli oppressi e l’imperialismo (escluse le due superpotenze), sono occultate e cancellate da questa teoria controrivoluzionaria spacciata dai maoisti cinesi come «importante contributo al marxismo-leninismo». Poco importava loro se questo fantomatico, effimero e sopravvalutato «nuovo ordine economico internazionale» fosse stato reso possibile dai mercanteggi dei paesi produttori di petrolio, che vedeva come protagoniste anche le petromonarchie reazionarie, filo-imperialiste nonché acerrime nemiche e assassine dei rispettivi popoli progressisti in lotta. La «teoria dei tre mondi» era imperniata sulla visione che i cinesi avevano dell’URSS. Mentre il PLA continuava a considerare sia gli USA che l’URSS come principali nemici e minacce dell’umanità, per la Cina il «nemico principale» era rappresentato dall’Urss, da isolare appoggiando l’imperialismo statunitense, che dominava il mondo economicamente e militarmente ed era passato all’offensiva, ignorando peraltro che l’imperialismo occidentale avesse impedito per decenni la riunificazione cinese puntellando Macao, Hong Kong e Taiwan. Le premesse di questa visione sono desumibili dalla visita segreta di Kissinger in Cina nel 1971, da quella ufficiale di Nixon nel 1972 e dalle conversazioni con alti esponenti dell’imperialismo americano, dalla «diplomazia del ping-pong» e dal sostegno cinese a organizzazioni militari e governi ultrareazionari e filo-imperialisti. Eclatante in questo senso il supporto conferito dalla Cina di Mao all’UNITA e al FNLA durante la guerra civile angolana, assieme allo Zaire di Mobutu e al Sud Africa dell’apartheid in funzione antisovietica (l’URSS sosteneva il MPLA). I marxisti-leninisti non escludono le tregue e i patti temporanei di non aggressione con alcuni imperialismi per combatterne altri, eloquenti il Trattato di Brest-Litovsk e lo schieramento sovietico durante la Seconda Guerra Mondiale, a patto che apportino benefici al movimento comunista e operaio internazionale. Se le mosse strategiche di Lenin e Stalin riuscirono, oltre a spezzare l’assedio imperialista, a sviluppare il paese del socialismo e a creare e rafforzare i partiti comunisti nel resto del mondo, la linea a-classista e geopolitica della cricca cinese era diretta a stabilire l’egemonia sui paesi del «terzo mondo» e a conferire vantaggi alla borghesia cinese, mai realmente espropriata e che passava all’offensiva, con l’ingresso permanente e con diritto di veto nel Consiglio di Sicurezza dell’ONU e l’inglobamento di Macao. Ciò con enormi danni per il proletariato, di cui veniva disconosciuto il ruolo di guida nella rivoluzione e per i popoli oppressi del mondo, di cui venivano soffocate le lotte di liberazione contro il giogo imperialista pur di realizzare gli obiettivi di cooperare con gli USA nella lotta contro l’Unione Sovietica revisionista e di mettere Pechino alla testa della borghesia degli stati del «terzo mondo», spacciandosi come loro principale difensore. Sotto quest’ottica vanno interpretati i rapporti coi regimi «terzomondisti» e anti-sovietici come lo Zaire di Mobutu, il Cile di Pinochet, l’Iran di Reza Pahlavi, così come con la Spagna fascista di Franco. Da rammentare anche le relazioni con i gruppi degli «opportunisti senza principio» di vari paesi (rumeni, spagnoli [2] , ecc.), ricevuti a Pechino e «fraternamente appoggiati», anche economicamente per dividere i partiti e il movimento comunista internazionale.
Appare dunque totalmente valida l’analisi che avrebbe svolto il compagno Enver Hoxha l’anno successivo nella sua opera «Imperialismo e Rivoluzione», secondo la quale la politica estera cinese, inaugurata all’inizio degli anni ‘70, fosse funzionale alla trasformazione della Cina in una superpotenza imperialista. La sua correttezza è testimoniata dalla Cina odierna, una superpotenza imperialista emergente, con un modo di produzione classicamente capitalista. Attualmente la Cina persegue la politica del «multipolarismo» aspirante a sostituirsi agli imperialisti occidentali nello sfruttamento dei paesi dipendenti e che ha rinunciato a qualsivoglia riferimento all’internazionalismo proletario. Dietro la demagogia sulla «ricerca di soluzioni adatte» in una fase di rapidi mutamenti internazionali, il multipolarismo predica la conciliazione di classe, cerca di creare alleanze fra il proletariato e la borghesia dei paesi imperialisti che si oppongono agli imperialisti nordamericani, fra gli oppressi e gli oppressori, fra i popoli e l’imperialismo. Allo stesso tempo, il multipolarismo è la negazione più flagrante del principio e della pratica dell’internazionalismo proletario, che viene sostituito con il nazionalismo cinese e la solidarietà con gli oppressori dei popoli. Nonostante gli sforzi dei revisionisti cinesi, il multipolarismo non elimina le contraddizioni di classe, né quelle fra potenze e monopoli imperialisti e tanto meno quelle fra imperialismo e popoli oppressi. Il mondo «più giusto» propagandato dai nuovi mandarini cinesi è sempre un sistema dominato dal capitale monopolistico finanziario, dunque un sistema da abbattere. La lotta di classe che il proletariato e i suoi alleati svolgono per conquistare il potere e la lotta della borghesia per mantenere il suo potere non si possono estinguere in questa epoca storica, ma solo accentuare. Oggi come ieri non si può combattere l’imperialismo, non si può adempiere ai compiti rivoluzionari del socialismo proletario-scientifico, non si può costruire l’unità rivoluzionaria del movimento comunista e operaio, senza combattere le tesi revisioniste e opportuniste, senza rompere apertamente e nettamente con queste correnti e le loro organizzazioni nazionali e internazionali. Tale doverosa separazione, favorita dall’acutizzarsi delle principali contraddizioni della nostra epoca, è storicamente inevitabile e necessaria per sviluppare la lotta rivoluzionaria del proletariato.
Oggi più che mai è necessario conservare la completa indipendenza teorica, politica e organizzativa, attenendosi saldamente ai principi del marxismo-leninismo per stringere la più salda unione internazionale dei proletari rivoluzionari di tutti i paesi. La difesa e lo sviluppo della teoria rivoluzionaria del proletariato, lo smascheramento e la lotta senza quartiere ad ogni forma di revisionismo e opportunismo, la pratica vivente dell’internazionalismo proletario, sono aspetti fondamentali della lotta per far avanzare il raggruppamento e l’unità dei sinceri comunisti.
Gennaio 2024
Piattaforma Comunista – per il Partito Comunista del Proletariato d’Italia
[1] La «Rivoluzionarizzazione Ulteriore» albanese e la «Grande Rivoluzione Culturale Proletaria» cinese, sebbene fossero coeve e avessero apparentemente obiettivi simili, furono condotte in modo opposto: la prima tramite la salda direzione del Partito, la seconda attraverso lo spontaneismo.
[2] Un altro avvenimento che testimonia il manifestarsi di forti riserve verso il maoismo, anche prima della morte di Mao, furono le critiche del Partito Comunista di Spagna (marxista-leninista) al PCC, avviate quando quest’ultimo nel 1970 invitò in Cina Santiago Carrillo, Segretario del PCE.
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