Occupazione, crisi aziendali e risposta operaia

Secondo un vecchio detto, al di sotto di uno sviluppo economico annuo del 2 % non esiste sviluppo occupazionale. In Italia le prospettive per l’anno in corso sono di  un PIL di poco superiore all’1%. La decantata crescita dell’occupazione che si otterrebbe col PNRR è solo una chiacchiera.

Le statistiche danno la disoccupazione a circa l’8 % e quella giovanile al 20 %. Ma non sono realistiche, perché il confine tra disoccupati ufficiali e l’immensa marea dei sottoccupati e precari è labile. Chi è impiegato per qualche settimana o mese all’anno  è considerato “occupato”.

Tra questi occupati fittizi il numero di coloro che ogni anno sono costretti a cambiare lavoro, si aggira sui due milioni, dei quali – dati del 2022 – 750.000 a causa di un licenziamento (in aumento rispetto al 2020).

Numeri di queste dimensioni testimoniano un esteso disagio sociale, lavorativo (nocività, ritmi, stress…), salariale, normativo, che crea un clima di incertezza e pessimismo tipico della società capitalistica.

Sul fronte dell’occupazione stabile (per modo di dire) sono circa 100 mila i lavoratori annualmente coinvolti in crisi aziendali ed a rischio licenziamento.

Di questi 50 mila riguardano il settore automobilistico tra cui Stellantis, Lear, Speedline, FTP, GKN, etc. sottoposto a una cronica sovrapproduzione e a una difficile ristrutturazione “ecologica”.

Tra i settori in crisi segnaliamo quello delle telecomunicazioni.  Vodafone ha dichiarato esuberi, che vanno ad aggiungersi a quelli di Ericsson, TIM, Italtel e Wind. Sono 5 mila i licenziamenti programmati nel 2023 in questo settore.

Al Mimit sono attualmente circa 60 i tavoli di crisi aperti (fra cui ex Ilva, Ansaldo Energia, Conbipel, Whirlpool, Natuzzi, Piaggio Aerospace, Alitalia, Canepa, Jabil, Electrolux, Pernigotti, la Bosch di Bari, I.I. Autobus, Sanac, Italtel, etc.). Essi rimangono in piedi anche per anni, notoriamente servono per fiaccare le lotte dei lavoratori senza offrire valide alternative. È difficile che le crisi si risolvano con accordi che non prevedano il sacrificio di almeno una parte degli operai dichiarati in esubero e altri incentivati ad andarsene con magri risarcimenti.

La difficile situazione in cui si trova buona parte dell’apparato produttivo è una manifestazione delle crisi del capitale, ma anche conseguenza del sopravvento, già dagli ultimi due decenni del secolo scorso, del neoliberismo e della conseguente rinuncia della borghesia a forme di programmazione e intervento monopolistico statale lasciando al “libero mercato”’ la regolamentazione dell’economia.  Ovvero, lasciando libero campo alla legge del più forte nella giungla economica capitalista.

In alcuni paesi  (ad es. in Francia) vi è un’impronta di “direzione” monopolistica statale nei settori strategici. Lo stato borghese è il più importante operatore di Borsa e possiede partecipazioni in migliaia di aziende. Non così in Italia, dove il neoliberismo sostenuto da tutti i governi di centrosinistra e centrodestra ha avuto un carattere sfrenato e le multinazionali hanno avuto libero accesso per investimenti a carattere speculativo. L’industria, e più in generale l’attività produttiva, è stata notevolmente ridimensionata e gestita da manager premiati per l’andamento crescente dei corsi azionari e delle delocalizzazioni.

Tra il capitale arrivato a saccheggiare si è rivelato particolarmente deleterio quello costituito dai fondi di investimento, privi, come lo stato nazionale, di qualsiasi politica o piano industriale.  Possiamo dire che un’azienda che passa in proprietà ad un fondo prima o poi è destinata alla chiusura.

Che fare nell’immediato? La via da seguire è quella della lotta dura bloccando la produzione e presidiando gli impianti per evitare il trasferimento altrove dei macchinari, creando organismi operai per gestire la lotta stessa, come insegnano importanti lotte operaie (Gkn, Wartsila, etc.).

Non che sia un intervento risolutivo, ma padroni e governo lo temono. La cosa peggiore è fidarsi delle istituzioni per una generica e ipocrita solidarietà. Esse al massimo vanno sfruttate – quando possibile – per far tirare fuori fondi per gestioni temporanee, senza dimenticare che sono sempre dalla parte dei padroni.

La lotta per il lavoro è dura e la repressione statale incombe continuamente. Ad es. all’Ansaldo energia alcuni operai, compresi dirigenti sindacali di fabbrica, sono inquisiti a mesi di distanza dai fatti, per essere andati per le spicce. Ma senza sacrifici e repressione la lotta di classe non procede. Dove sono stati messi in conto, come nella logistica, dal sindacalismo conflittuale, alcune vertenze si sono chiuse positivamente.

La solidarietà va prioritariamente attivata nelle fabbriche del gruppo e nel territorio. E va divulgata al massimo perché l’unità degli operai fa la forza e li prepara a lottare contro l’intera classe dei capitalisti e il loro organo di oppressione: lo Stato borghese.

Dove queste condizioni non ci sono rimane comunque importante impedire con la lotta a oltranza ogni licenziamento.

Compito dei comunisti e degli operai avanzati è sostenere le lotte, difendendo gli interessi dell’intera classe operaia e suscitando l’aspirazione a eliminare lo sfruttamento capitalistico.

Da Scintilla n. 136 (luglio-agosto 2023)

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