Acciaierie d’Italia: difendere a tutti i costi l’occupazione, il salario, la salute
A fine settembre sono state rese pubbliche le offerte di acquisto di Acciaierie d’Italia (ex-Ilva). Il quadro che si delinea è a tinte fosche. Solo due delle offerte riguardano l’intera azienda; le altre otto sono proposte per singoli rami, il cosiddetto spezzatino.
Le due offerte sono di fondi statunitensi, una peggiore dell’altra. Quella di Bedrock Industries, che va per la maggiore, propone l’acquisizione al prezzo simbolico di 1 euro e prevede un piano di ristrutturazione con oltre 7.000 esuberi su 10.000 lavoratori, il mantenimento di 2.000 operai a Taranto e i rimanenti 1.000 negli altri siti, soprattutto in Liguria.
Non è difficile capire la fine che faranno gran parte degli altri 8.000 lavoratori dell’indotto.
Se ciò passasse avverrebbe lo smantellamento di un importante settore di classe operaia, organizzata e concentrata, con il peggioramento sotto ogni aspetto (salario, diritti, salute) degli operai rimanenti.
Una situazione che aggrava la già pesante situazione, rispetto la quale le burocrazie sindacali hanno gravi responsabilità in quanto organicamente collaborazioniste ed eternamente in ritardo sugli avvenimenti.
Che tirasse una brutta aria lo si era capito quando ministro e commissari straordinari avevano estromesso dal tavolo di trattativa sul rinnovo della cassa integrazione anche i sindacati “firma tutto”.
Nei mesi precedenti, con gli impianti funzionanti al minimo, sotto il ricatto della magistratura e con il rischio di aver contro settori popolari aizzati da sedicenti “ambientalisti”, i dirigenti dei sindacati si erano illusi che i “tavoli di confronto” avrebbero potuto sbloccare la situazione. Pensavano di costringere la gestione commissariale governativa a mettere a punto un piano industriale di decarbonizzazione e risanamento ambientale in modo che eventuali interessati se lo fossero trovato davanti come preciso impegno; un piano, beninteso, corredato della parte finanziaria.
Niente di concreto su tutto questo: solo promesse e chiacchiere. Ciò ha portato gli stessi capi sindacali a non sottoscrivere l’accordo “di programma” del 12 agosto. Ma a quel diniego non è seguito un percorso adeguato di mobilitazione e di lotta, come se le intenzioni della controparte non fossero chiare.
Certo il risanamento implica investimenti enormi. Ma la classe operaia ha già dato. L’acciaio è strategico per i capitalisti? Bene. Trovassero il modo di reperire i fondi prendendoli dai padroni e dalle banche.
Operai e masse popolari (Taranto, Genova … ) già hanno subito per anni sulla propria pelle gli effetti dell’inquinamento, della riduzione del salario attraverso la Cig e degli organici. È ora di dire basta!
Bisogna aver chiaro che il governo Meloni è un governo antioperaio e che tutta la messinscena di questi mesi si inquadra perfettamente nella linea di non frapporre ostacoli ad un processo di graduale decarbonizzazione e svendita, mentre si programma l’espulsione di migliaia di operai dal ciclo produttivo. I suoi piani vanno rigettati!
Perciò è necessario rompere la passività e creare con la lotta dura le condizioni per imporre le esigenze del proletariato e cacciare al più presto il governo Meloni che esprime la volontà di piegare la classe operaia alla politica del padronato e del grande capitale finanziario, di cui è espressione.
Il 16 ottobre finalmente si è andati allo sciopero generale che ha avuto una buona partecipazione (il 100% a Genova), così come i cortei cittadini. Ma lo sciopero poteva e doveva essere condotto con maggior incisività. Senza dubbio la convocazione governativa per il 28 ottobre a Roma (perchè non a Taranto?) è stata una mossa per depotenziare la mobilitazione, assecondata dai capi sindacali filo-governativi, mentre altri l’hanno colta al volo per proseguire nell’imbroglio della concertazione.
La mobilitazione deve, al contrario, continuare e crescere inchiodando il governo e lo Stato alle loro responsabilità, aumentando la pressione operaia per esigere interventi urgenti e risolutivi a salvaguardia del lavoro.
Resistere alla prospettiva dello smantellamento è possibile, così come è possibile salvaguardare l’occupazione, rifiutare la cassa integrazione a perdere, recuperare alla produzione tutti coloro che sono in questa anticamera dei licenziamenti, in condizioni di sicurezza.
Questo deve essere messo al centro di ogni soluzione, costruendo l’unità di lotta degli operai, battendo assieme al collaborazionismo anche tendenze settarie e divisioniste.
L’estensione e il rafforzamento del fronte unico dal basso, la realizzazione di comitati e collettivi operai, sono passaggi di mobilitazione e organizzazione dentro una lotta che sarà lunga, difficile ed aspra.
Se il fallimento di Acciaierie d’Italia è il fallimento della borghesia e dei suoi servi, la classe operaia deve avanzare nella lotta la propria alternativa di potere, che oggi esprimiamo in uno slogan: gli operai a Palazzo Chigi!
Da Scintilla n. 155, ottobre 2025
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