Aumentano i profitti, diminuiscono i salari

Come è noto l’Italia è l’unico paese in Europa in cui fin dagli anni ‘90 del secolo scorso il salario reale è diminuito.
Dal 1990 al 2020 esso ha perso il 2,9% del potere d’acquisto, di contro ad un aumento medio della zona Euro del 22,6 % e della media OCSE del 18,4%.
Recenti dati estrapolati dalla Fondazione Di Vittorio (Cgil), su dati OCSE, estendono questo andamento fino al 2023 e lo proiettano sui prossimi anni.
Apprendiamo così che dal 1991 al 2023 il salario medio annuale in Italia ha perso 1.089 euro, di contro ad un aumento di 10.500 della Germania, di 9.600 della Francia e persino di 2.700 della Spagna, altro paese con bassi salari.
Restringendo il periodo dal 2021 al 2024, di forte inflazione, la perdita netta cumulata risulterebbe di 5.322 euro su un totale di 110.000 (in percentuale -5%).
In proiezione dal 2021 al 2029, col presupposto tutt’altro da scartare che gli aumenti nominali siano sotto il tasso ufficiale d’inflazione (sappiamo che l’inflazione effettiva relativa al consumo operaio e popolare è più alta) la perdita cumulata sarebbe di 15.500 euro, al netto dello sgravio fiscale, su un totale di circa 260.000 con una perdita di addirittura del 6%.
Nemmeno tralasciamo un dato parziale secondo cui dal 2010 al 2023 la perdita sarebbe dell’8,03% (in realtà, come vedremo, è di una volta e mezza tanto).
Nel mentre calano i salari aumentano i profitti.
Secondo la Fondazione Di Vittorio dal 2019 al 2023 il “valore aggiunto” (incremento di valore del capitale complessivo impiegato nel processo produttivo, comprendente quindi anche i salari) è cresciuto del 33%, con un utile netto in salita del 14%, di contro ad un calo salariale dal 2020 al 2023 del 12% (in realtà per chi non ha rinnovato i contratti arriviamo, come detto, al 17%).
Gli utili salgono ai massimi dell’ultimo decennio, pari al 5,4% del fatturato.
Per le maggiori 200 società di capitale nel biennio 2022-23 essi assommano a 132 miliardi. Le prime 1900 società grandi e medio-grandi hanno distribuito nello stesso periodo 52 miliardi di dividendi.
Come se non bastasse lo stato capitalista continua a metterci del suo a sostegno dei profitti, promuovendo il calo della pressione fiscale diretta. Sulle imprese essa si è ridotta dal 33% del 2007 al 24% del 2017.
Quali sono le conseguenze da trarre?
In primo luogo, Marx aveva perfettamente ragione: salari e profitti cambiano in direzione opposta, tutto quello è stato perso dai salari è andato ai profitti: “Poichè il capitalista e l’operaio hanno da suddividersi solo questo valore limitato, cioè il valore misurato dal lavoro totale dell’operaio, quanto più riceve l’uno, tanto meno riceverà l’altro, e viceversa. Siccome non esiste che una quantità, una parte aumenterà nella stessa proporzione in cui l’altra diminuisce.” (K. Marx, Salario, prezzo e profitto).
In secondo luogo, la riduzione del salario (compreso quello differito – le pensioni – che qui non trattiamo, ma che caleranno ancora per via della programmata revisione dei coefficienti di rivalutazione) è un aspetto primario dell’attacco che la classe capitalista sta da decenni portando alla classe operaia, assieme all’aumento della precarietà, al peggioramento delle condizioni di lavoro e di vita (p. es. caro-affitti e fruibilità dei servizi pubblici), e, segnatamente da due anni a questa parte, all’ondata di cassa integrazione e licenziamenti.
In terzo luogo, questo attacco è solo in parte rintuzzato dai rinnovi contrattuali, che al massimo limitano i danni, con aumenti nominali a recupero parziale della recente inflazione, spalmati in più anni.
Un esempio: tra i contratti già firmati gli alimentaristi aumentano mediamente di 280 euro. Andiamo nello specifico: per un 4° livello abbiamo calcolato, a regime, ossia all’1/1/2027, un aumento tabellare di 187 euro mensili, il che porta il salario mensile lordo a 1.988 euro, rispetto il vecchio contratto in scadenza al 2023, in pratica un aumento di circa il 10%.
Mancano ben 7 punti per recuperare la perdita del 17%, senza contare l’inflazione dal 2024 in avanti. Nulla da sbandierare per rinnovi impostati in questo modo e con queste cifre!
Oggi l’attacco al salario è la forma con cui la borghesia cerca di rilanciare i suoi profitti in un contesto economico di stagnazione e scarsi investimenti.
Per l’aumento del salario, slegato dalla produttività, occorre dar vita a una lotta generale, perché è in ballo la condizione operaia, la solidarietà di classe e la ripresa della coscienza che in regime capitalistico non può esserci avvenire e che perciò esso va affossato e sostituito con il socialismo.
A partire da ciò deve farsi strada l’idea che il protagonismo delle masse nella lotta contro il capitale renderà possibile questo obiettivo, purchè vi sia l’intervento dei comunisti.
Fra i nostri compiti c’è quello di promuovere, sulla base della politica di fronte unico, la costruzione di organismi di massa, di fabbrica e di territorio, comitati e coordinamenti che diano una prospettiva diversa e alternativa a quella delle burocrazie sindacali, da anni corresponsabili della perdita salariale con le loro politiche concertative e le svendite contrattuali.
- Costruiamo una vera lotta per l’aumento generale del salario e il miglioramento delle condizioni di lavoro!
- Allarghiamo la mobilitazione per sviluppare la lotta ai licenziamenti, alla precarietà, per la sicurezza sul lavoro!
- Costruiamo organismi permanenti per una coordinata e unitaria direzione delle lotte, al di la della logica di sigla e dei settarismi esistenti!
Da Scintilla n. 150, gennaio 2025
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