Ex-Ilva, un accordo vergognoso che non risolve i problemi, ma li scarica sugli operai

Il 12 agosto presso il Mimit si è tenuta una riunione tra governo, rappresentato dal ministro Urso, enti locali, sindacati, da cui è scaturita una messinscena pomposamente definita “accordo”.

Chi l’ha sottoscritto (governo ed enti locali) si è accontentato di propositi generici, difficilmente attuabili, che non risolvono affatto la crisi del maggior stabilimento siderurgico europeo, né dissolvono le incertezze presenti e future, né offrono garanzie occupazionali per 18.000 addetti (tra operai diretti e delle ditte appaltatrici).

L’accordo in teoria prevede il passaggio alla decarbonizzazione, ossia alla produzione senza i tradizionali ed inquinanti altiforni le cui polveri e gas venefici che hanno avvelenato per decenni gli operai e la città; ma questo in tempi non definiti, fino ad un limite massimo di 12 anni!

Fino a tale data infatti è stata prorogata l’Autorizzazione Integrata Ambientale che consente di produrre inquinando e avvelenando operai e popolazione.

Gli altiforni dovrebbero essere sostituiti da forni elettrici alimentati, da un nuovo materiale ferroso, detto preridotto, la cui produzione prevede impianti a nuova tecnologia (DRI).

Questa tecnologia, se riduce (senza eliminarle del tutto) le emissioni inquinanti, necessita tuttavia di enormi quantità di gas naturale, quindi di rigassificatori, ovvero una nave rigassificatrice, scelta rischiosa e da rigettare.

L’accordo nulla dice del posizionamento di questi nuovi impianti, che potrebbero anche andare fuori regione.  La nuova tecnologia è molto costosa ed è quindi improbabile che di questi costi se ne faccia carico un nuovo acquirente. Tanto più in una fase di sovrapproduzione mondiale dell’acciaio e di abbattimento dei prezzi.

Chi mette i fondi:  i privati? lo Stato? Rimane dunque un’incognita che l’accordo non chiarisce. Si tratta di un punto fondamentale perché, se non risolto, esiste il concreto rischio che in un prossimo futuro, dopo che si sarà prodotto il massimo con la vecchia tecnologia (si parla di ben 6 milioni di tonnellate di acciaio annue), l’impianto tarantino chiuda, come in molti (ogni giorno di più) chiedono da tempo.

L’accordo non prevede alcuna garanzia occupazionale, né per i vecchi nè per i nuovi cassintegrati (che attualmente in tutto assommano ad oltre 4.000 operai), e nemmeno per chi ora è in produzione.

Si giustificano perciò pienamente i timori degli operai e dei rappresentanti sindacali più combattivi e non che in questo periodo stanno valutando il da farsi.

A questi problemi si aggiunge il timore di una frattura, che va scongiurata, con quella parte della città di Taranto che sopporta con sempre maggiore difficoltà una situazione in cui contro l’inquinamento e il danno ambientale, e a difesa della salute pubblica, si è fatto poco o nulla.

Timore che va aumentando per l’attivismo antioperaio di oltranzisti dell’ambientalismo, che dovrebbero sapere che i primi ad essere colpiti da emissioni, polveri, materiali nocivi usati in siderurgia sono stati e sono tuttora gli operai del nostro e di altri paesi, con tragiche conseguenze.

Questi nemici della classe operaia offrono il deatro alla borghesia per separare le cause della crisi ambientale dal modo di produzione capitalistico, se ne fregano delle conseguenze sociali dei licenziamenti conseguenti alla chiusura dell’impianto e delle ricadute sul reddito dei cittadini che pretendono di difendere.

Di fronte a queste manovre si deve contrapporre la politica di unità di classe e di unità tra operai e popolazione.

La lotta contro la nocività, per l’uso di protezioni individuali, per l’uso di tecnologie meno dannose e meno inquinanti che il progredire tecnico-scientifico mette a disposizione, è da sempre una rivendicazione operaia, sin dagli inizi della produzione capitalistica.

Produzione e ambiente (che a Taranto vogliono dire risanamento ed investimenti in nuove tecnologie) devono procedere di pari passo, tanto più quando produrre inquinando di meno si può, anche se la contraddizione sarà risolta completamente abbattendo il capitale con il passaggio al socialismo.

Un aspetto decisivo è quello dell’unità interna della classe operaia.

Vanno respinte nel modo più netto anche posizioni di chi vorrebbe un impianto depotenziato, peggio ancora spezzettato nella proprietà e nei siti produttivi, funzionante solo “a freddo” o al massimo con forni elettrici a rottame, accettando migliaia di esuberi da mandare (a spese di chi?) a risanare.

Anche questi sono modi per spezzare l’unità operaia.

Risanare presto e bene è doveroso, ma scongiurando un quadro di frammentazione e precarietà in più ditte interne ed esterne alla produzione.

Gli operai non sono dei vuoti a perdere o a disperdere!

Da qui in avanti (nessuno poteva credere che il 15 settembre spuntasse un acquirente che si facesse carico degli ingenti investimenti che l’operazione di decarbonizzazione richiederebbe) si prospetta una fase di lotta dura in cui la classe operaia dovrà mettere in campo tutta la sua compattezza e determinazione.

La lotta va preparata a partire dalle assemblee a cui far seguire la costituzione di organismi unitari di lotta dal basso, possibilmente composti da delegati eletti. In primo luogo per la difesa del salario che la c.i.g. riduce e dell’occupazione, per il contratto unico esteso agli appalti, contro ipotesi di esuberi e licenziamenti, da stroncare subito con le forme di lotta che la classe operaia conosce.

Ma anche per imporre un vero risanamento, con tempistica ed impegni concreti (tra cui le risorse finanziarie) che salvaguardi il futuro dell’attività produttiva e dell’occupazione operaia.

Senza la lotta e il protagonismo operaio, senza l’esperienza e le conoscenze in materia accumulate dalla classe operaia non si farà nessuna decarbonizzazione.

Da Scintilla n.154, settembre 2025

 

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