Il capitalismo è incapace si assicurare i servizi essenziali per l’infanzia

L’Istat ha pubblicato recentemente un’indagine sui nidi e servizi integrativi per la prima infanzia nell’anno educativo 2021/2022.

I dati che emergono da questa indagine sono l’ennesima conferma dell’incapacità del sistema capitalista-imperialista  di assicurare alle donne le condizioni essenziali perché esse possano prendere parte diretta alla produzione sociale.

In sintesi, questi dati danno il seguente quadro generale:

– quota di posti nei servizi educativi, rispetto ai bambini residenti sotto i tre anni, pari al 28% a livello nazionale (34,4% centro-nord; 16,2% mezzogiorno), mantenendosi persistenti ed ampi i divari tra le singole regioni;

– quota di richieste di iscrizione non accolte per carenza di posti pari al 49,1% (63% dei nidi pubblici; 40,7% dei privati);

– percentuale di nidi che prevedono l’esenzione totale della retta per condizioni economiche pari al 9,4% (19% nel pubblico; 3,5% nel privato);

– i comuni sono titolari del 34% delle strutture, in cui si trova il 48,8% della disponibilità complessiva di posti. Il rimanente 66% delle strutture e il 51,2% dei posti è di proprietà privata, di cui una parte in convenzione con i comuni.

Dall’indagine statistica se ne ricava una conclusione: l’accessibilità economica del nido, ossia il costo elevato delle rette, unitamente alle barriere all’accesso dovute alla scarsità di posti, rappresenta ancora un ostacolo per molte famiglie delle classi subalterne, nonostante alcune provvidenze di stampo elettoralistico.

L’unico elemento di miglioramento che gli statistici riescono a trovare è che il leggero incremento della copertura dei posti in relazione ai bambini residenti (0,8%) rispetto al 2020/2021, è dovuto alla contrazione delle nascite ed alla conseguente riduzione dei potenziali beneficiari del servizio.

D’altronde, la statistica ufficiale non sfugge all’ipocrisia borghese, omettendo di dire che una delle ragioni del calo demografico è da attribuirsi alla precarietà della vita dei giovani, allo scarso salario e alla mancanza di servizi sociali.

La cosiddetta legislazione sociale europea, per rimuovere i disincentivi alla partecipazione delle donne alla forza lavoro, invita gli stati membri a “fare sforzi” per fornire un’assistenza all’infanzia, ma senza alcun vero obbligo, trattandosi in definitiva di un cartellone pubblicitario dei pretesi “valori sociali europei”.

Il Consiglio europeo di Barcellona nel 2002 reclamizzava la misura percentuale di almeno il 33% di copertura a livello nazionale dei posti di asilo nido, rispetto ai bambini che ne avrebbero dovuto beneficiare, da raggiungere entro il 2010, cui è succeduta la nuova misura del 45% di bambini frequentanti servizi educativi di qualità entro il 2030.

Sbandierando la difesa della nazionalità italiana, il governo ha incluso gli asili nido nei livelli essenziali delle prestazioni, prescrivendo con la legge di bilancio per il 2022, per ciascun Comune o bacino territoriale, un numero di posti tra asili e scuole dell’infanzia (includendovi ad ogni buon conto il servizio privato) pari ad un minimo del 33% dei bambini residenti tra 3 e 36 mesi.

Rimasta né più né meno una lusinga demagogica, il governo è dovuto tornare a promettere interventi decisivi a favore dell’aumento delle nascite con le nuove risorse del PNRR, prevedendo, entro la fine del 2025, l’aumento dell’offerta educativa nella fascia 0-6 anni su tutto il territorio nazionale, attraverso la messa a disposizione di 264.480 nuovi posti tra asili nido e scuole dell’infanzia.

Volendo dare una prova pratica della superiorità del metodo del federalismo fiscale, con il PNRR il governo ha chiamato alla partecipazione in competizione fra loro i singoli comuni, che avrebbero dovuto candidarsi con propri progetti tecnici alla realizzazione sia di asili nido sia di scuole per l’infanzia.

Gli atti parlamentari nei quali la questione viene esaminata, vorrebbero testimoniare tutta la sorpresa del governo per la mancata raccolta dell’appello da parte della totalità dei comuni, che ha reso addirittura necessaria la reiterazione dei bandi per non dover dichiarare un fallimento.

Ma, se non si vuol considerare il fatto che la determinazione del costo e della durata del periodo di costruzione fissata dal PNRR è puramente ipotetica, di certo nessuna garanzia veniva prestata ai Comuni assegnatari riguardo l’erogazione dei fondi sufficienti per assicurare il funzionamento e il mantenimento delle strutture.

La presenza nel singolo Comune di un numero di bambini inferiore a 18, il minimo richiesto per la realizzazione di un asilo nido; l’inclusione del servizio privato nel computo della disponibilità di posti di nidi e scuole dell’infanzia nel Comune, vengono soppesate per stabilirne la parte avuta nel determinare il mancato trionfo della politica governativa.

A nulla è valso escogitare coefficienti per sanare le difficoltà nell’assegnazione dei finanziamenti, come lo sbandierato quanto falso indirizzo meridionalista governativo.

Inoltre, tra i comuni non partecipanti alla gara, con meno di 18 bambini tra 0 e 2 anni, si trovano in prevalenza quelli situati nella fascia alpina, lungo la dorsale appenninica e nelle aree interne delle grandi isole.

Per molti di essi, considerata la loro posizione geografica, non è neppure facile il ricorso a forme di aggregazione del servizio e, pertanto, il problema viene lasciato semplicemente irrisolto.

Alla fine, i risultati ottenuti a livello regionale che vengono vantati non celano l’effetto di compensazione nell’ambito della stessa regione tra comuni che hanno comunque ottenuto risorse per la realizzazione di ulteriori posti, rispetto a quelli che pur non garantendo un’offerta adeguata non hanno partecipato ai bandi, mostrando così l’aumento dei divari.

In realtà, ciò che non si vuol riconoscere è l’inconsistenza dei finanziamenti statali rispetto alla realizzazione di una rete di asili nido e scuole dell’infanzia su tutto il territorio nazionale.

La difesa della famiglia e della dignità della donna fatta con le pose fanfaronesche dei ministri borghesi, vorrebbe mascherare con i “messaggi di speranza” la realtà di un attacco sferrato dal capitale contro le condizioni di esistenza delle masse popolari; un attacco che colpisce in maniera particolare le donne, su cui ancora oggi ricade la maggior parte del lavoro di cura dei figli.

Va anche osservato che la dimensione ridotta della presenza pubblica nelle strutture per la prima infanzia si traduce in un altro esempio del sostegno che lo Stato borghese assicura alla Chiesa in cambio dell’opera svolta da quest’ultima per diffondere l’oscurantismo fra le grandi masse, fin dalla più tenera età.

La costruzione ed il mantenimento in ogni Comune di strutture per la prima infanzia, la garanzia dell’assunzione delle maestre d’asilo e della loro retribuzione, la fornitura per tutti i bambini di vitto, di quanto necessario alla loro cura, una sorveglianza medica ben organizzata, ponendone le spese a carico del bilancio statale, la questione stessa del passaggio del mondo della maternità individuale in quello della maternità sociale, sono rivendicazioni tanto giuste e da sostenere con la mobilitazione, quanto impossibili da realizzare anche negli stati capitalisti più sviluppati.

Invece di investire in questo settore sociale, lo Stato borghese, con il pretesto di “incoraggiare gli affari”, non ha alcuna difficoltà a versare somme enormi ai maggiori capitalisti sotto forma di sovvenzioni.

Così come nessuna difficoltà lo Stato ha a gonfiare il debito pubblico per sussidiare l’industria degli armamenti e allestire spedizioni militari, che apportano enormi benefici agli “investitori” borghesi, pubblici e privati.

Da Scintilla n. 144, aprile 2024

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