La falsificazione della storia come arma di propaganda di guerra

A proposito di “holodomor”
La falsificazione della storia come arma di propaganda di guerra
A fine novembre 2022 il Bundestag tedesco ha approvato una mozione sottoscritta dai partiti di maggioranza (Spd, verdi e liberali) e dai conservatori di Cdu e Csu, riconoscendo quale genocidio il cosiddetto holodomor in Ucraina (1932-33); a metà dicembre il parlamento europeo ha adottato la stessa posizione, attualizzando il mito creato da nazisti e sciovinisti ucraini, secondo cui la presunta carestia del 1932-33 nel contesto della collettivizzazione dell’agricoltura in URSS sarebbe stata volutamente pianificata dal governo sovietico e, personalmente, da Stalin per ”punire una nazione che stava opponendosi”.
Nella situazione attuale lo scopo di questa falsificazione storica è duplice: cercare di accomunare forzatamente l’Unione sovietica socialista e il regime capitalista russo (ovvero un’altra mostruosa falsificazione); sostenere economicamente e militarmente la cricca ultrareazionaria al potere in Ucraina.
L’accusa di genocidio non si basa su alcuna ricerca storica e demografica, ma viene ripresa di sana pianta dall’epoca nazista, in cui alcuni giornalisti anglosassoni (l’americano Walker, spalleggiato dal magnate filonazista dell’editoria Hearst, e l’inglese Jones) montarono sul nulla, alla Goebbels – anzi, con la sua collaborazione – il caso in questione. Malgrado l’ampia simpatia e militanza nazista che allora imperversavano sia in America sia in Gran Bretagna, e altrove, il caso fu smascherato già allora da altri giornalisti e storici, della stessa nazionalità ma indipendenti, quali Douglas Tottle e Walter Duranty.
In particolare fu smascherata la documentazione fotografica mettendo in luce che venivano utilizzate fotografie della carestia dei primi anni ‘20, concomitante con la guerra civile e l’intervento militare di molte nazioni europee, al seguito del disastroso conflitto mondiale, contro la giovane repubblica socialista dei Soviet.
Di fronte alle menzogne borghesi, ripercorriamo brevemente i fatti. Dopo il periodo della NEP, verso la fine del 1929, la collettivizzazione integrale delle campagne e la liquidazione dei kulak come classe sfruttatrice s’imposero in tempi “stretti” per due ordini di motivi.
In primo luogo, per mettere ordine e risolvere la situazione delle campagne, facendola finita con la speculazione sul prezzo del grano con diffusi episodi di aggiotaggio la cui conseguenza era l’affamamento delle città. Nelle campagne si dovevano poi eliminare le condizioni di spaventoso arretramento con cui veniva praticata l’agricoltura, unite a un clima non propizio: condizioni che comportavano da sempre frequenti periodi di carestia di cui i contadini, ridotti all’epoca zarista allo stato di servitori della gleba, ne facevano le spese.
In secondo luogo, andava rapidamente aumentata la produttività del lavoro agricolo, a partire da un radicale cambiamento della tecnica agraria, per consentire l’alimentazione di un numero in rapida crescita di operai e tecnici addetti all’industrializzazione, il cui primo piano quinquennale partiva nel 1928.
Tempi eccezionali: dopo l’esaurimento dell’ondata rivoluzionaria iniziata sul finire del conflitto mondiale l’URSS era isolata e minacciata di aggressione, specie ad opera dell’impero britannico, in particolare nel 1927, ma in prospettiva anche dall’ascesa del fascismo. Doveva quindi in breve tempo, forzando le tappe, costruire la sua industria pesante.
Nella corretta visione di Stalin e del governo sovietico l’agricoltura doveva adottare il sistema delle grandi aziende meccanizzate, che nello stesso periodo prendevano piede nei principali stati capitalistici, ma senza alcuna vessazione ed espulsione di massa dei contadini dalle campagne, senza cioè le conseguenze che il fenomeno assumeva negli USA, con rilevanti, quanto sottaciuti, costi umani (documentati dal magnifico romanzo realista “Furore” di Steinbeck).
Questo processo che aveva per fondamento il passaggio di tutta la terra ai colcos e ai sovcos, fu sostenuto da un grande movimento di massa di milioni e milioni di contadini piccoli e medi che incontrò in alcune regioni più difficoltà del previsto. Ivi si registrò una disperata resistenza, armi alla mano, da parte dei kulak, strato di contadini ricchi creato dalle riforme capitaliste del primo ministro zarista Stolipin (lo stesso che riempì la Russia di forche per gli oppositori).
I kulak riuscirono ad attrarre una parte dei contadini medi agiati e ad aizzarli contro i colcosiani e il potere sovietico. Uccisero i partigiani più attivi dei colcos, distrussero in massa il bestiame, incendiarono raccolti e magazzini colcosiani, sabotarono semine e impedirono l’accudimento delle colture, avvelenarono gli alimenti. A ciò vanno aggiunta la siccità e le epidemie, specie di tifo petecchiale, nonché errori politici ed esagerazioni di quadri locali che si dimostrarono incapaci di affrontare con lucidità gli avvenimenti (si vedano a proposito gli articoli di Stalin “Vertigine dei successi” e “Risposta ai compagni colcosiani”). Il governo sovietico ammise le difficoltà e intervenne per affrontarle abbassando, ove necessario, il limite minimo delle consegne obbligatorie e punendo severamente i funzionari incapaci o che avevano abusato del potere loro concesso. L’esatto contrario della premeditazione. Più tardi venne alla luce che molte esagerazioni furono commesse deliberatamente da trozkisti e bukhariniani per screditare il movimento colcosiano e compromettere l’alleanza fra la classe operaia e i contadini.
Come tutte le rivoluzioni, la lotta di classe nelle campagne nel contesto della collettivizzazione non fu un pranzo di gala. Ci fu carestia? Se ci fu, come conseguenza di una durissima lotta fra sfruttati e sfruttatori (sicuramente ci fu la strage degli animali da tiro attuata dai ricchi agricoltori che causò diminuzione della produzione granaria), dell’allungamento delle operazioni agricole e delle difficoltà sopraggiunte nel creare rapidamente forme di organizzazione atte a permettere un’abbondante produzione agricola, sarebbe comunque stata l’ultima.
Il potere sovietico prese in quegli anni importanti provvedimenti per superare le difficoltà nella conduzione delle aziende agricole collettive. Con l’aiuto dell’Armata Rossa i campi furono seminati e accuditi e nel 1933 il peggio passò. Di li a poco, come effetto dell’industrializzazione, arrivarono in quantità trattori, macchinario e fertilizzanti. L’Ucraina sovietica divenne il primo granaio dell’URSS. Le carestie furono debellate con il socialismo. Nel 1934 vi fu persino un’amnistia verso quei kulak che non si erano macchiati di crimini.
I numeri? Difficili da quantificare anche nella stima. Stando alle cifre riferite dagli “esperti” borghesi fino a una trentina di anni fa, si parlava complessivamente di un milione di morti. Il Conquest, giornalista legato ai servizi di Sua Maestà sparò 5 milioni. Ora basta consultare in Internet siti giornalistici per rintracciare cifre iperboliche di 10, 20 e più milioni!
Purtroppo anche persone non ostili all’URSS dell’epoca della dittatura del proletariato si sono accodate all’ondata falsificatrice, diffondendo “numeri in libertà”. Avrebbero, volendolo, ancora la possibilità di ristabilire la verità storica smitizzando sparate assurde e invenzioni di “genocidio” che se all’epoca favorirono la Germania nazista oggi favoriscono il mito dell’ “occidente dei diritti umani” che vuole rifarsi, sull’ignoranza dei fatti o sulla loro falsificazione, una verginità.
Occorre una battaglia sul fronte storico e ideologico, a cui nessun sincero rivoluzionario dovrebbe sottrarsi, pena cadere nella vergogna e nel tradimento.
Ebbene, senza andare alle cifre astronomiche delle vittime del colonialismo, a partire – vogliamo limitarci – dalla conquista delle Americhe, quante vittime costarono guerre mondiali, coloniali, imperialiste? Quante vittime la tratta degli schiavi? Quante per le carestie dovute all’imposizione delle monoculture, anche in Europa (vedi la monocoltura della patata in Irlanda)? E i costi sociali della rivoluzione industriale a partire dalla Gran Bretagna? E della grande depressione degli anni ‘20 in Germania e degli anni 30 in generale?
Se ci si arma della dialettica, la stessa che faceva dire a Marx “la storia del capitale è segnata a tratti di lacrime e sangue”, questi conti obiettivi non sarebbe così difficile farli, se si volesse. E non sarebbero certo favorevoli ai boriosi imperialisti che pur di accreditare miti assai utili alla propaganda di guerra imperialista si giovano, oltre che di prezzolati intellettuali, anche di rinunciatari presso chi, a parole, dice di volerli contrastare.
Dicembre 2022
Piattaforma Comunista – per il Partito Comunista del Proletariato d’Italia
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