La giustizia negli USA: più carcerati, più profitti

Nell’articolo “Carcere sicuro, un passo verso il carcere privato”, apparso su Scintilla di settembre 2024, invitavamo a porre attenzione alla tendenza alla privatizzazione di questo apparato statale che nel capitalismo si è storicamente sviluppato in funzione di precise esigenze economico-sociali, quale l’imposizione delle dure condizioni del lavoro salariato, il conseguente disciplinamento del proletariato, la deterrenza delle masse sfruttate e il lavoro forzato nelle “case di correzione”.

La tendenza alla privatizzazione segue il modello che si è manifestato negli USA fin dagli anni ’80 dello scorso secolo e che attualmente viene applicato su circa l’8% del totale dei prigionieri. (ma in ben 17 Stati più del 20% dei carcerati è rinchiuso in prigioni gestite da corporazioni private).

La privatizzazione si articola sia sul piano degli investimenti privati nella costruzione di prigioni e nella gestione di diversi tipi di servizi custodiali, sia nel fare delle prigioni luoghi di sfruttamento intensivo della forza lavoro dei carcerati.

Questo modello per funzionare si deve basare su un particolare rapporto detenuti/cittadini.

I dati che si riferiscono agli Stati Uniti d’America e che pervengono dall’Istituto universitario londinese che si occupa di monitorare le carceri a livello internazionale, sono impressionanti (anche se si trova di peggio in altri Paesi centramericani ed in taluni asiatici ed africani): nel 2021 c’erano 1.767.200 persone detenute, con una percentuale che arriva a 531 ogni 100.000 abitanti del Paese nordamericano.

In Canada il rapporto è di 90 detenuti ogni 100.000 abitanti (2022-23), mentre in Italia è di 104 (2024), in Francia 111 (2024), in Germania 67 (2022), in Spagna 113 (2023).

In tal modo, la popolazione carceraria statunitense rappresenta circa il 25% del totale dei detenuti nel mondo.

La tendenza all’incarcerazione negli USA è comunque in calo, dopo aver raggiunto i 2.270.142 detenuti nel 2010 (731 ogni 100.000 abitanti).

Il gran numero di prigionieri è ascrivibile a più fattori. Innanzitutto, l’alto tasso d’incarcerazione e l’aumento continuo dell’edificazione (da parte del governo) di nuovi istituti di pena non rappresentano un deterrente ma, al contrario, un costume abituale in una società in cui il carcere accompagna la vita di intere famiglie, gruppi sociali, minoranze, emarginati.

Per fare un esempio, il 35% dei detenuti statunitensi sono di origine afroamericana, a fronte del solo 14% che rappresenta questa minoranza sul totale degli abitanti.

C’è da chiarire che, negli USA, le carceri sono gestite in modo differenziato all’interno dei 50 Stati federali.

È dagli anni ’80 (in piena era reaganiana) che, inoltre, si è assistito al crescere a dismisura degli istituti di pena gestiti privatamente.

Ciò significa, ovviamente, che gestire un carcere diviene un affare, un’occasione di profitto e che, conseguentemente, più gente viene ristretta nelle galere e più si arricchisce il privato gestore.

Quando Ronald Reagan firmò l’Anti-Drug Abuse Act le carceri USA si riempirono, ma lo spaccio ed il consumo della droga non cessarono ed anzi aumentarono.

E ancora, sotto la presidenza “democratica” di Bill Clinton venne firmato il Violent Crime Control and Law Enforcement Act, che aumentava le pene su reati non violenti e sullo spaccio della droga, senza ottenere assolutamente una diminuzione di tali reati, ma facilitando, al contrario, l’aumento della popolazione carceraria, a vantaggio dei gestori degli istituti di pena.

Sono molte le società private che gestiscono, a nome del Paese federale o del singolo Stato, le prigioni e, in parecchi casi, queste aziende sono addirittura quotate in borsa.

È il caso di Core Civic e Geo Group, che sono proprietarie di edifici carcerari, sono presenti a Wall Street, gestiscono anche appalti e servizi vari collegati al mondo carcerario, fanno attività di lobbying presso la Casa Bianca (hanno appoggiato l’elezione di Trump).

Risultato di questa tendenza alla privatizzazione degli istituti di pena è senza dubbio il fatto che i gestori amministrano con una certa autonomia le carceri, acquisendo risorse pubbliche statali, ma anche facendo risparmi sulla salute, sui diritti, sui servizi e sulla sicurezza dei detenuti.

Spesso tali risorse vengono impiegate in investimenti anche in differenti settori, tra cui il finanziario.

Negli USA, si distingue la “prison” dalla “jail”, in quanto la prima connota l’istituto statale o federale ove stazionano i condannati a pene definitive o comunque lunghe, mentre nella seconda, gestita di solito localmente, vengono ristretti i detenuti in attesa di giudizio o quelli condannati a pene brevi.

Nel 2024, gli istituti di pena statunitensi appaiono suddivisi in 98 prigioni federali e 1.566 prigioni statali, a cui si sommano 3.116 carceri locali e 1.323 correzionali per minorenni.

Per fare un raffronto, basti notare che in Italia esistono 189 prigioni in tutto (dato del 2021), suddivise in Case circondariali (istituti di custodia cautelare), per i detenuti in attesa di giudizio, e Case di reclusione (istituti per l’esecuzione delle pene), per i detenuti condannati definitivamente.

Altro dato su cui riflettere è quello collegato alla cosiddetta recidiva.

Da studi governativi statunitensi recenti, pare che l’82% delle persone incarcerate in prigioni statali siano state arrestate almeno un’altra volta nei 10 anni successivi al rilascio.

La maggior parte di questi arresti avviene entro i primi tre anni, e più della metà entro il primo anno.

In poche parole, chi entra una volta in carcere ha grandi probabilità di tornarci.  Non per niente, il tasso dei suicidi nelle carceri statunitensi è abbastanza alto (45 morti ogni 100.000 detenuti), anche se inferiore a quello registrato negli istituti di pena europei.

In conclusione:  nella società borghese al peggioramento delle condizioni di lavoro e di vita si accompagna inevitabilmente una legislazione repressiva, assieme all’opportunità di realizzare alti profitti senza alcuno scrupolo morale.

Nel nostro paese all’impoverimento delle masse e al crescente disagio sociale il governo padronal-fascistoide di Meloni oppone solo la criminalizzazione delle lotte e delle proteste (di cui il DdL 1660 è l’emblema), i “decreti Caivano”, carceri sempre più sovraffollati e fatiscenti (metà delle prigioni italiche ha più di cent’anni) e false promesse di nuove carceri. Diciamo NO alla privatizzazione e alla delocalizzazione delle prigioni, alla repressione carceraria, al carcere come risposta ai gravi problemi sociali!

Da Scintilla n. 150, gennaio 2025

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