Lezioni dei referendum

Il risultato referendario era ampiamente previsto. La scarsa partecipazione alle elezioni di ogni tipo è un fenomeno sociale ormai strutturale.

Il disinteresse verso la politica, la sfiducia e la disaffezione alla partecipazione sono il portato di decenni di neoliberismo, di individualismo, di qualunquismo, così come di promesse tradite, di politica ridotta a spettacolo indecente dei burattini della classe dominante, di bidoni sindacali.

Non si poteva certo ribaltare questo fenomeno con dei referendum che trattano questioni che interessano soprattutto gli operai, che in Italia sono una minoranza, seppure consistente.

La scarsa partecipazione è stata favorita dalla campagna astensionista del governo Meloni e della sua maggioranza, nonché delle associazioni padronali e da alcune sigle sindacali più sfacciatamente collaborazioniste e governiste (la CISL, ricompensata con l’ingresso di Sbarra al governo).

Una scelta che ha messo in chiaro due cose: il disprezzo che queste forze hanno verso gli operai e gli altri lavoratori sfruttati; la putrefazione della borghesia che getta a mare i suoi stessi istituti democratici e parlamentari, mettendo a nudo l’oppressione di classe.  Questa politica ha avuto dei risultati in ampi strati della piccola borghesia, ma anche fra giovani vittime della disinformazione e delle tante droghe che offre un sistema che nega loro un lavoro dignitoso e il futuro. Anche il quesito sulla cittadinanza ha frenato la partecipazione di settori popolari imbevuti di pregiudizi xenofobi diffusi dalle destre (e non solo).

C’è un altro motivo che spiega la bassa affluenza.  I referendum non sono giunti dopo una stagione di grande mobilitazione operaia e popolare.

Sono stati piuttosto uno strumento della smobilitazione voluta dai vertici della CGIL, che ha sostituito gli scioperi generali, le mobilitazioni sui posti di lavoro, con i banchetti per le firme.

L’analisi del voto mette in luce alcuni aspetti interessanti. In primo luogo, va considerato il fatto che nelle attuali condizioni materiali e ideologiche del proletariato, una massa di circa 12 milioni e 250 mila voti che nel nostro paese si posiziona a favore del Lavoro, votando SI contro le stesse leggi volute dai governi di centro-sinistra, non è da disprezzare, ma da valorizzare.

È una base sociale in cui i comunisti debbono saper lavorare per conquistare influenza e accumulare forze.        In secondo luogo, nei referendum sindacali la massa dei SI è stata superiore di circa due milioni di voti alla somma dei voti del “campo largo” alle europee del 2024 che ebbero affluenza superiore.

Se consideriamo che non tutti gli elettori del PD e M5S sono andati a votare, oppure hanno votato NO per precise ragioni di classe, ne ricaviamo che un flusso significativo di SI ai referendum sul lavoro è stato espressi da settori operai che in precedenza si erano astenuti, o che non votano per il “campo largo”.

La riprova sta nella geografia politica del voto.

Il SI raggiunge le percentuali più alte nelle zone operaie e nei quartieri popolari delle grandi città, specie dove vi è la presenza di associazionismo, attivismo sociale, sindacale e politico in grado di arginare la deriva reazionaria.

Sono stati milioni di SI per difendere i diritti dei lavoratori, contro le politiche antioperaie padronali e governative, appoggiate dai sindacati di regime.

Un voto di protesta, contro i padroni e i loro servi. In quest’ambito si è collocato anche il nostro SI, assieme a tutto il sindacalismo di classe, ai settori operai avanzati che hanno espresso una posizione politica al riguardo.

Una scelta accompagnata da una propaganda rivoluzionaria che è stata apprezzata da molti compagni, lavoratori e lavoratrici.

La “non validità” dei referendum ricade politicamente sula testa di due personaggi: Landini e Schlein.

Il primo, un parolaio che ha evocato per mesi la “rivolta sociale con il voto”, che ha condotto una campagna personalistica con il continuo bluff del quorum raggiungibile per preparare la sua discesa in politica. Dopo aver illuso tanti lavoratori, e frustrato tanti attivisti, dopo aver fatto del sindacato il proprio megafono, non ha pronunciato mezza parola di autocritica.

La seconda, mirava a regolare i conti con il renzismo, usando il referendum come banco di prova del “campo largo” su una linea movimentista. I risultati sono stati scarsi ed è ora sotto attacco della minoranza interna.

I dirigenti socialdemocratici e liberal-riformisti, i burocrati dei sindacati e i politicanti opportunisti si rinfacceranno per mesi la responsabilità dell’insuccesso, scivolando sempre più sul piano inclinato del collaborazionismo e dello sciovinismo, sempre dalla parte del capitale e dello Stato borghese.

Dal nostro punto di vista, l’esito dei referendum non può essere considerato una sconfitta e tanto meno il punto morto inferiore della lotta di classe.

I referendum, al pari delle elezioni in regime borghese, non sono mai stati l’arma principale della lotta dei lavoratori, ma uno strumento assolutamente secondario, di cui possiamo approfittare in taluni casi.

La tornata referendaria ha piuttosto dimostrato l’impotenza e la demagogia di una linea politico-sindacale imperniata sul collaborazionismo e l’interclassismo, ha rivelato la nullità dei metodi abituali del riformismo, che svia le lotte su binari morti.

Senza lotte operaie, senza un grande movimento di massa, non si cambia il rapporto di forze, non si respingono le micidiali politiche capitaliste.

Contro un governo di estrema destra che avanzerà nel suo attacco antioperaio e antipopolare, bisogna ripartire subito con la lotta, sviluppando l’unità di azione dal basso, a partire dalla difesa rigorosa degli interessi economici e politici dei lavoratori salariati, lottando contro il collaborazionismo e il settarismo, legandola alla mobilitazione in corso contro il riarmo generale, l’aumento della repressione, la solidarietà al popolo palestinese e agli altri popoli in lotta contro il sionismo e l’imperialismo.

Le leggi securitarie nulla potranno quando si svilupperà la vera rivolta sociale, quella che porrà all’ordine del giorno il passaggio dall’ipocrita democrazia borghese alla sostanziale democrazia del proletariato.

Da Scintilla, n. 153 – giugno 2025

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