Sui referendum proposti dalla CGIL

Ai primi di gennaio la Corte costituzionale ha bocciato il referendum sull’autonomia differenziata, facendo cantare vittoria al governo Meloni artefice della controriforma che ora proseguirà il suo iter, e ammesso cinque referendum.

Fra di essi vi sono i quattro proposti dalla Cgil sui licenziamenti illegittimi, la precarietà del lavoro, i subappalti e le norme di sicurezza.

La decisione della Corte ha determinato un’altra conseguenza: senza il “traino” del referendum sull’autonomia differenziata è altamente improbabile che i referendum approvati otterranno il quorum di almeno il 50%.

Ciò ha messo in crisi la tattica di Landini che puntava su questo aggancio per creare un largo fronte referendario che portasse al voto la maggioranza degli elettori.

Quale deve essere l’atteggiamento dei comunisti e degli operai avanzati in questa situazione?

Le ragioni dei quesiti referendari ammessi, sebbene i loro risultati sarebbero parzialissimi, sono reali e riflettono alcuni bisogni immediati della classe lavoratrice.

Peraltro le norme che si vogliono abrogare sono ulteriormente esasperate da un governo che attacca diritti e pensioni,  estende il precariato ed è corresponsabile assieme ai capitalisti dell’aumento delle morti sul lavoro.

Il problema non è quindi se appoggiare i referendum, senza generare alcuna illusione fra i lavoratori, come occasione per denunciare le malefatte governative, esporre le rivendicazioni parziali legate a finalità non riformiste ma rivoluzionarie, sviluppando l’iniziativa politica comunista.

Il problema è l’uso da parte dei capi sindacali Cgil dei referendum democraticisti come surrogati di una vera mobilitazione di massa a partire dai luoghi di lavoro, che va ad incidere sulla tenuta del movimento operaio e sindacale.

Una mobilitazione che i vertici sindacali della confederazione diretta da Landini non hanno voluto portare avanti e intensificare, fermandosi allo sciopero generale con blande manifestazioni regionali, e che ora vogliono affossare facendo balenare davanti agli occhi dei lavoratori la falsa speranza della vittoria nei referendum.

Landini è “convinto di raggiungere il quorum”. Ma come può farlo dal momento che la Cgil è isolata nel fronte sindacale e vede anche dissensi interni? Che il PD (il quale votò a favore del Jobs Act e della legge Monti-Fornero) è spaccato sui referendum? Che le forze della maggioranza governativa, oltre all’oscuramento  dei referendum, faranno appello all’astensione, la quale si sommerà quella “fisiologica”?

Forse i piccolo borghesi di M5S, di AVS e le realtà dell’associazionismo catto-riformista (la “Via Maestra”) hanno la possibilità di ribaltare questa situazione?

E che dire dell’appello lanciato da Landini a Forza Italia, Fratelli d’Italia e Lega? Cos’è decisivo: la lotta degli sfruttati, oppure gli elettori di destra? Dove si incide, in fabbrica o al bar?

La scelta referendaria sul temi del lavoro non solo è illusoria e fallimentare, come dimostra l’esperienza; è anche profondamente  errata poiché a votare i referendum (o a non votare, facendoli fallire) indetti su questioni che riguardano direttamente la classe operaia, non saranno “i cittadini” in astratto, ma classi e strati sociali che nulla hanno a che vedere con la condizione operaia. Fra queste classi c’è la borghesia che ha l’egemonia ideologica e politica.

Non a caso nel nostro paese i referendum abrogativi in materia di lavoro si sono rivelati perdenti (v. scala mobile, rappresentanza sindacale, reintegro nel posti di lavoro), o hanno dato solo risultati apparenti (trattenute sindacali, contrattazione nel PI, etc).

Per di più, dal 2000 in avanti l’affluenza alla maggior parte dei referendum difficilmente ha superato il 30%.

La linea sindacale referendaria della Cgil altro non è che la prosecuzione della linea collaborazionista che ha smobilitato e infiacchito il movimento operaio. Essa serve ai vertici sindacali riformisti per abbandonare la centralità delle lotte di massa sui temi del salario, dell’occupazione, delle condizioni e della sicurezza sul lavoro, dei diritti, adottando metodi da radical-democratici che quasi mai hanno portato a risultati favorevoli in campo sindacale.

Senza contare che una sconfitta per mancato quorum ai referendum creerà un clima più sfavorevole e verrà presa al balzo dal governo per varare ulteriori misure antioperaie.

Pensare di recuperare per via referendaria, in un contesto politico reazionario, quello che non si è voluto difendere o conquistare con la lotta è un delitto imperdonabile.

Il solo risultato che avranno questi referendum sarà quello di rallentare e deviare momentaneamente la ripresa della mobilitazione operaia e popolare, generando maggiore frustrazione e delusione in tanti proletari.

La strategia giusta non è quella di dare priorità alla campagna referendaria, come ha deciso il gruppo dirigente della Cgil, ma quella di ridare gambe e fiato alle battaglie di classe in fabbrica e fuori, senza perdere di vista la meta del movimento operaio e comunista: la conquista rivoluzionaria del potere politico.

Non dobbiamo perciò rincorrere Landini sulla via “filantropica” piccolo-borghese che ha imboccato.

La “rivolta sociale” non passa da un voto interclassista che si trasformerà in un boomerang per la stessa Cgil, che ne uscirà indebolita e marginalizzata.

Se poi capi e burocrati della Cgil pensano che sia giunta davvero l’ora di fare qualcosa sul serio, ebbene diano libero sfogo alla loro “combattività”. I proletari troppo spesso sono stati ingannati dalle grandi parole senza seguito di questi signori, per lasciarsi fregare un’altra volta.

I lavoratori e le lavoratrici per uscire dalla difficile situazione in cui si trovano non possono che fare affidamento che sulla propria forza unita e organizzata, sullo sviluppo della lotta di classe e non sul ricorso alle chimeriche urne referendarie.

La questione di fondo che va compresa  è la crisi profonda del riformismo, determinata dal fatto che la società borghese non vede più un periodo di accumulazione capitalistica prolungata e sostenuta, di ampliamento della base produttiva e di conseguente possibilità di miglioramento generale delle condizioni di vita e di lavoro delle masse lavoratrici.

Il progetto di costruzione di un “capitalismo dal volto umano” è miseramente fallito. Oggi vi sono la redistribuzione della miseria, la socializzazione delle perdite, la diminuzione contrattata del potere di acquisto del salario.

Le realtà economica non offre più supporto per le politiche riformiste o keynesiane.  L’esperienza pratica vissuta da milioni di operai li porta ad allontanarsi da tali concezioni e a nulla valgono le giravolte e i trucchi elettoralistici dei capi sindacali e dei politicanti riformisti e populisti.

I tempi del tranquillo tran-tran parlamentare, delle  politiche socialdemocratiche, del pacifico sviluppo della lotta di classe si stanno esaurendo perché è venuto meno il terreno materiale che li sosteneva.

Sotto i colpi della crisi il proletariato e le grandi masse si stanno risvegliando anche nel nostro paese.

Ci aspettano duri conflitti di classe in cui ancora una volta la classe operaia, grazie all’azione del partito comunista per cui lottiamo, ritroverà la via rivoluzionaria e prenderà coscienza della necessità e della possibilità di abbattere il sistema del lavoro salariato, sostituendolo con il lavoro associato.

Da “Scintilla” n. 151, febbraio 2025

 

 

 

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